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Viaggio a Guiglia

Viaggio a Guiglia

Per comprendere le motivazioni che mi hanno spinto a realizzare questa piccola gita nell’Appennino Modenese bisogna risalire ad un tempo lontano che vide in qualche modo le origini della nostra storia familiare.

Mi incuriosirono alcune rare fotografie della giovinezza di mio padre che non so come si erano conservate e salvate negli anni. Ed è proprio attraverso esse e grazie alle sue biografie e ai racconti sentiti in casa che cercherò di ricostruire queste vicende.

Tuttavia devo precisare che le notizie in mio possesso non sono molte e a volte risultano imprecise. Non mi fu possibile infatti conoscere il nonno Carmelo che morì prima della mia nascita ed ero troppo giovane per interrogare la nonna Agata nelle sue visite estive presso la nostra casa. Né ho potuto contare su dettagliati racconti da parte di mio padre che evidentemente non amava ricordare quei periodi per certi versi così bui della sua esistenza. Perciò a volte ho dovuto fare delle illazioni sulla base delle mie sensazioni. Di questo mi perdonerà il lettore.

Giuseppe Gambino, mio padre, nacque a Vizzini in provincia di Catania il 6 Ottobre 1928. Era figlio di Agata Linguanti e Carmelo Gambino ed era il loro secondogenito, dopo il fratello Francesco.

La famiglia abitava a Palermo, ma pare che la nonna diede alla luce suo figlio Giuseppe, Pino, durante un periodo di vacanza passato appunto a Vizzini, comune che si trova in collina e che evidentemente forniva un clima più salubre per la futura mamma.

Mio nonno Carmelo era un dipendente pubblico e in origine si occupava di stenografia, o almeno così mi è dato di sapere. Mise a punto addirittura un metodo di stenografia, “Il Metodo Gambino”, di cui conservo un incomprensibile, almeno per me, manualetto.

Leggo inoltre sul sito web dell’Accademia Giuseppe Aliprandi Flaviano Rodriguez, Accademia Italiana di Stenografia, che egli fu autore di almeno due pubblicazioni: “La stenografia della nostra lingua”, Società Tipografica Modenese, Modena  1946 e “La Stenografia d’oggi”,  Tipografia  V. Bellotti e Figlio, Palermo 1950.

Per necessità di carriera, Carmelo si trasferì con la famiglia a Roma nel 1929. Lì vissero almeno fino al 1935, come testimonia la pagella del primo trimestre della classe prima elementare dell’allievo Giuseppe Gambino, iscritto all’opera balilla con tessera n. 0092842,  presso la scuola elementale mista Mario Guglielmotti.

Come ho appreso dai miei familiari, il nonno era uno degli stenografi personali di Mussolini, notizia questa che non ho modo di verificare e della cui attendibilità posso solamente avere fiducia. So anche che egli, col maturare degli sviluppi politici, avvertì un certo timore per questo suo incarico stanti i tempi già difficili dell’inizio di quell’orribile periodo che ci condusse alla seconda guerra mondiale.

Ignoro per quanto tempo continuò a fare questo mestiere o quale fosse veramente la sua attività, ma di certo dovette cambiare lavoro in quei primi anni di vita di mio padre. Infatti diventò funzionario della Soprintendenza alle Belle Arti.

Fu così che la famiglia, immagino nel 1936 si trasferì prima a Verona e poi a Mantova. Lo si presume anche dal fatto che in quella prima pagella di Giuseppe non vi è traccia degli esiti dei trimestri seguenti e forse già a metà anno scolastico vi fu questo repentino trasferimento. In tutti i casi rimasero a Mantova per qualche tempo come testimonia un cartoncino ricordo della Prima Comunione di papà fatta il 6 aprile 1939 presso la chiesa di San Pietro.

Nonno Carmelo dovette esercitare le sue funzioni presso il Palazzo Ducale, nel cui ambito anche la famiglia fu ospitata. Negli anni a seguire la residenza dei Gambino coinciderà spesso con la sede di lavoro di Carmelo. Papà si trovò così fin dalla più tenera età a dimorare presso musei e gallerie d’arte antica, palazzi e castelli, ville e residenze aristocratiche. Crebbe dunque nel bello estetico, nelle sedi della Cultura, in luoghi patrimonio della Storia del nostro Paese, circondato da quelle opere che tutto il mondo ci invidia. Certamente da bambino e adolescente non si rese conto di tutto questo, ma visse questi luoghi come un molto particolare parco di giochi. Immagino che, come poi ebbe modo di fare nel corso di tutta la sua esistenza, fu allora che cominciò a guardare, senza farsi domande, senza possedere nessuna nozione di storia dell’arte, senza forse conoscere l’importanza di ciò che stava vedendo. E semplicemente guardando forse apprese il senso della spazialità, l’importanza del colore, l’eleganza dei segni, la pienezza delle forme. Quando i visitatori non c’erano, gli venne magari voglia di riempire qualche foglio nelle immense sale dei palazzi dove abitava, copiando o cimentandosi in propri disegni di bambino.

Nel 1939 un altro trasferimento a Modena, con residenza nel palazzo della Galleria Estense.

Proprio da questa ricca e meravigliosa città comincia il mio piccolo viaggio nel tempo. Mia complice e compagna di questa avventura è Sonia.

Arrivando in città, ci accoglie il Museo Enzo Ferrari per il quale non provo particolare interesse vista la mia, ahimè, totale ignoranza circa le automobili sportive. Lo visitiamo ugualmente rimanendo ammirate dalla ricca collezione di modelli di bolidi ma soprattutto dalla storia del suo inarrestabile fondatore.

Una breve passeggiata ci porta a Palazzo Ducale, barocca residenza dei duchi d’Este; al Duomo e alla Torre Ghirlandina di cui saliamo i 200 gradini per godere del panorama sulla città; al Mercato Storico Albinelli e finalmente al Palazzo dei Musei. E’ qui che, oltre al Museo Civico, all’Archivio Storico Comunale e alla Biblioteca di Storia dell’Arte, si trova appunto la Galleria Estense con la ricca collezione di opere d’arte appartenute ai Duchi d’Este.

Cammino attraverso questo odierno allestimento tra disegni, bronzi, ceramiche, strumenti musicali, dipinti del quattrocento modenese,  di Correggio, Tintoretto, El Greco e Velázquez, di maestri fiamminghi e veneti. Non so se si tratta esattamente delle stesse opere che accompagnavano le giornate di papà, tuttavia ne dovette essere estasiato, colpito dalla grandezza e dalla maestosità di quelle tele o cullato dalla dolcezza delle Madonne con Bambino. Non sono in grado di capire dove fosse collocata la dimora dei Gambino, però questo enorme palazzo, articolato e complesso e il grande cortile piantumato di lapidi romane dovevano rappresentare per un ragazzo un territorio infinito di esplorazione.

Una fotografia scattata a Monza del 1942 mostra un sereno Giuseppe adolescente, già molto elegante come poi rimase per tutta la vita. L’Italia si trovava in guerra ormai da due anni, ma nel volto del ragazzo non si percepiscono ancora preoccupazioni, né forse aveva visto gli orrori che derivarono da quel conflitto. Da questo momento in poi si dovettero apprestare tempi difficili ed oscuri per la famiglia tanto che non si sono conservate fotografie degli anni che seguirono.

Rimane solo un ultimo scatto del 1946 dove Giuseppe, ormai diventato ragazzo, cammina sotto i porticati del centro di Modena. Forse fu scattata quando ormai la guerra era terminata e l’Italia con il passaggio dalla monarchia alla repubblica aveva dato inizio alla costruzione della nuova democrazia.  Sempre curato nell’abbigliamento, elegante nel passo, rivela un’aria triste e amareggiata, forse testimonianza di quegli anni di orrore e paura che erano appena passati e si erano portati via la sua innocenza.

 

Agata e Carmelo Gambino

La famiglia Gambino a Verona – 1936

            Giuseppe a Monza – 1942       Giuseppe a Modena – 1946

 

Sappiamo però che tra il 1940 e il 1944, in piena guerra, la famiglia si trasferì a Guiglia, sull’Appennino modenese. La residenza dei Gambino coincise ancora una volta con la sede di lavoro di Carmelo, il Castello Montecuccoli.

Lasciata Modena, ci dirigiamo dunque verso sud in direzione di Guiglia che si trova sulla prima linea di colline dominanti la pianura.  Attraversiamo il Panaro e una salita ci porta ai 490 metri di quota del paese. Preso il nostro alloggio all’albergo “La Lanterna”, salgo subito alle porte del Castello. Attraversato il piccolo borgo in leggera salita, la Torre dell’Orologio precede la cinta muraria e l’imponente torre merlata. Posso accedere all’interno della fortificazione fino a un verde piazzale circondato da antichi edifici e dominato dal portale di ingresso al Castello. Lo potrò visitare solamente tra due giorni, ma non riesco a rimandare questo primo approccio. È qui che tante vicende della vita di papà si sono susseguite.

Nonno Carmelo dovette probabilmente lasciare la Galleria Estense al seguito delle opere stesse del museo. Infatti presso il Castello Montecuccoli fu allestito un deposito di opere d’arte provenienti  da Modena e da altri centri dell’Emilia, con lo scopo di proteggerle dai bombardamenti che continuavano a minacciare le città. Lo ritroviamo infatti a Guiglia con l’incarico di Consegnatario del Deposito.

Si trattava in larga parte proprio di quelle opere che ho appena ammirato presso la Galleria Estense. Esse giunsero al Castello chiuse in grandi casse di legno nel 1940, ritenendo l’appartato e isolato paesino di Guiglia luogo sicuro e lontano dalle insidie della guerra. Così fu per qualche tempo. Finché con la firma dell’armistizio del settembre del 1943 l’Italia si arrese agli alleati che cominciarono ad avanzare dalla Sicilia per liberare i territori; i tedeschi occuparono l’Italia centro settentrionale e settentrionale; molti soldati italiani si unirono alle formazioni partigiane. Ci vollero ancora 16 mesi di guerra, stragi, bombardamenti e rappresaglie per arrivare alla agognata e definitiva pace. Guiglia affrontò così una difficile e pericolosa situazione, le opere d’arte si trovarono in pericolo, le persone che le assistevano dovettero temere per la loro esistenza.

Fu in questo difficile periodo che arrivò a Guiglia anche il professore Pietro Zampetti nominato responsabile della tutela del patrimonio artistico. L’incontro con il professore, insigne storico dell’arte, sarà destinato ad essere fondamentale e importante per il destino di Giuseppe, come hanno dimostrato le vicende successive che li hanno visti ancora insieme a Venezia e poi per il resto delle loro esistenze personali e professionali. Ma questa è un’altra storia da raccontare.

Tornando ai tempi di quel loro primo incontro, riporto la testimonianza dello stesso Pietro Zampetti, tratta da “Giuseppe Gambino Catalogo Generale dell’Opera – Volume Primo”, Pietro Zampetti e Paolo Rizzi, Castaldi Editore – Feltre 1998, che più di ogni altro fornisce una fotografia esatta del clima e degli avvenimenti di quel tempo.

“Durante la guerra, tra il ‘44 e il ’45 mi trovavo – come responsabile della tutela del patrimonio artistico – a Guiglia, piccolo centro sull’Appennino modenese, nel cui castello, già dei Montecuccoli, era stato allestito un deposito di  opere d’arte “sfollate” da Modena ed altre città emiliane (ma anche dal Piemonte) per allontanarle dai pericoli dei bombardamenti aerei. Erano chiuse nella maggioranza in casse e distribuite in varie sale di quel castello.

Allontanate dalle città per timore dei bombardamenti, gli eventi del conflitto e l’invasione del territorio italiano dagli eserciti in lotta, esposero invece quelle opere ai pericoli della guerra guerreggiata. Era l’invernata tra quei due anni, l’esercito alleato risaliva il nostro paese e Guiglia, prossima ormai alla zona dei combattimenti, era esposta a continui pericoli dal cielo, non solo, ma di violenze, delazioni, scontri sanguinosi tra militari tedeschi e partigiani. Era una situazione terribile, funesta. L’Emilia, essendo l’Italia divisa in due tronconi, faceva parte dell’effimera Repubblica Sociale di Salò,  ma in quella zona appenninica ogni presenza dello Stato, e di un qualsiasi Governo, era scomparsa.

Nel castello si erano trasferiti alcuni addetti della Sopraintendenza di Modena, ormai isolata e senza direttive, tra cui proprio il padre di Gambino (e la sua famiglia), tutti alloggiati in quel monumentale edificio. Anche mia moglie e mia figlia Valeria, di tre anni, erano del gruppo, mentre io dividevo il mio tempo tra Modena e Guiglia. La vita era crudele, tra uccisioni, bombardamenti, rapine e continui stati angosciosi. In tale atmosfera, di paure, sospetti, delazioni ed arresti, a sedici anni, Pino veniva costretto a scavar fosse per i soldati tedeschi morti e qui trasportati dalla vicina zona di combattimento. Il ragazzo si rese conto che, per sfuggire a quella situazione, non gli rimaneva che chiudersi nel suo mondo affidato al disegno e al colore, unica possibilità, nel diffuso silenzio fatto di sospetti reciproci, di realizzare la propria identità e la libertà di espressione, d’essere, insomma, se stesso. Il padre, a sua insaputa, mi mostrava di tanto in tanto quei fogli: creati senza compiacimenti, essi apparvero messaggio diretto d’una coscienza che scopriva il mondo e lo sentiva vero, ben oltre quell’inferno in cui si era venuto a trovare. Mi sembrò incredibile come, senza maestri, riuscisse ad esprimersi con tanta sicurezza e capacità di comunicazione.”

Ed è proprio papà a confermare questa sua scelta di disegnare in un racconto fatto all’amico critico dell’arte Ennio Pouchard:

“Il mio primo quadro rappresentava un bosco; ma gli altri che seguirono furono quasi tutti di figura. Sono andati dispersi, purtroppo: per lo più regalati ad amici occasionali”

Tuttavia alcuni rari disegni di quell’epoca sono riusciti ad arrivare alla mia attenzione. Si tratta di paesaggi collinari dai quali emergono antichi borghi arroccati sulle cime.

Per cercare di ritrovarli affrontiamo allora un piccolo trekking in comune di Guiglia che ci porta nel cuore del Parco dei Sassi di Rocca Malatina. Un bellissimo giro ad anello ci conduce dalla Pieve di Trebbio, all’Oratorio della Madonna dei Sassi e in cima al Sasso della Croce, al Mulino della Riva e al borgo medioevale di Castellino delle Formiche, al Mulino delle Vallecchie e all’abitato di Ca’ Rastelli. Dall’alto di queste singolari guglie di arenaria lo sguardo si posa tutto intorno su dolci colline, verdi prati, boschi, vigneti e una costellazione di fattorie e di piccoli borghi. Arroccate sulle alture più strategiche stanno ancora  vecchie dimore costruite attorno ai resti di una fortificazione come pulcini attorno a una chioccia. A nord, vicinissima è la Pianura, all’orizzonte si scorgono gli Appennini con il Monte Cimone. Ma l’identità di queste colline è esclusiva e particolare.

 

Paesaggio, 1943

Guiglia, 1944

 Paesaggio

 Paesaggio 1945

 Guiglia, 1946

 Alberi

 

La  pace di questa bellissima regione certamente  ispirò Pino a cominciare  a disegnare e a dipingere d’istinto. Non so se già in lui, così giovane, fosse maturata l’idea di fare della pittura la sua unica professione. Credo che questo fosse un pensiero del tutto azzardato per quei tempi, nondimeno egli già avvertiva quel bisogno di esprimersi attraverso i segni e il colore che mai più lo abbandonò nella sua vita futura.

Tuttavia la guerra fu, come abbiamo visto, dura, lunga e cruenta. La zona fu teatro di scontri sanguinosi tra truppe tedesche e partigiani. Ovunque morte, violenza e tanta paura.

Tratte da “Giuseppe Gambino dipinti 1955-1995 Catalogo generale dell’opera – Volume Secondo”, Ennio Pouchard, GMV Libri 2003, riporto  alcune righe di un’intervista fatta a papà, in cui è egli stesso a raccontare quegli eventi tragici:

“Mi facevano raccogliere i morti …, lavarli con la pompa uno per uno …., stenderli nelle casse e inchiodarle. E’ stato un trauma per me. Diventai adulto all’improvviso, passando da un mondo di sogni alla realtà più tragica.”

Sono alcuni disegni del 1944 molto cruenti – un impiccato tra la folla sconcertata, uno scheletro adagiano in una fossa – che testimoniano il clima di terrore in cui si doveva vivere in quei tempi a Guiglia, tra la paura delle rappresaglie tedesche e i bombardamenti continui.

In questo clima la psiche ed il fisico del giovane Pino si indebolirono a tal punto che il ragazzo contrasse la tubercolosi. Era questa malattia molto diffusa in quei tempi di privazioni e miseria. Non fu che dopo il 1946, con lo sviluppo dell’antibiotico streptomicina, che un trattamento efficace e una cura divennero possibili per guarire. In realtà La streptomicina fu isolata già nel 1944 proprio negli Stati Uniti di America e forse all’epoca della malattia di papà, essa era già sbarcata in Sicilia portata dagli alleati liberatori assieme al cioccolato. Le vicende della guerra però impedirono al miracoloso farmaco di raggiungere Guiglia in tempo per curare papà.

Prima dell’introduzione di questa medicina, l’unico trattamento oltre ai sanatori erano gli interventi chirurgici.  Fu così che Pino dovette essere ricoverato in ospedale e poi inviato in Svizzera per subire un intervento di lobectomia polmonare nel tentativo di salvare quel poco di sano che rimaneva dei suoi giovani polmoni. Di questa vicenda non possiedo evidenze, né notizie più dettagliate. Non so dire nemmeno in che anno avvenne, né in quale località venne ricoverato né tantomeno come la raggiunse. So che una volta operato fece ritorno al sanatorio di Gaiato nel comune di Pavullo nel Frignano.

Lasciati i Sassi di Rocca Malatina partiamo allora alla volta di Pavullo. La distanza che separa Guiglia da Pavullo non è eccessiva. Tuttavia la strada si snoda tortuosa attraverso l’infinita distesa delle colline che abbiamo ammirato dall’alto questa mattina. Passando per Rocca Malatina scendiamo fino ad attraversare il Panaro e poi risaliamo a Castagneto e ancora lungamente fino a Pavullo. Pur essendo la strada piacevole, immersa nel verde e ampia alla vista, penso a quante difficoltà ci dovettero essere per gli spostamenti in quel tempo di guerra e negli anni successivi della ricostruzione in cui tutto mancava. L’automobile era un bene non ancora posseduto dalle famiglie e molto probabilmente i mezzi pubblici di trasporto erano diventati rari e incostanti. La bicicletta era sicuramente valida alternativa ma il viaggio diventava lungo, faticoso e soprattutto pericoloso. Immagino quindi che papà non ricevette molte visite in quel periodo da parte dei suoi familiari. Si ritrovò così solo, ammalato, indifeso.

In quel suo triste disegno di Gaiato del 1947 mi pare di riconoscere la sagoma della diroccata Torre del paese, sua silenziosa compagna di quei giorni difficili.

Il ricovero durò comunque lungamente. Suoi compagni di degenza furono parecchi reduci dai campi di concentramento tedeschi. Gente come lui colpita e annientata dall’orrore di quella guerra, ferita nell’anima, ammalata nel corpo, ma soprattutto ancora viva. Con loro strinse legami famigliari che credo rimasero indelebili. Questa degenza forzata, insopportabile per un giovane come lui, lo spinse diverse volte ad uscire di nascosto e a recarsi a ballare nelle rare balere di quel tempo, dove oltre allo svago poteva trovare temi e motivi per i suoi disegni, eseguiti sempre a memoria in un momento successivo. Ma ritroviamo anche alcuni ritratti di donne, meste e dall’aria triste. Forse sue compagne di quella sventura.

Per i cinque anni successivi alla guerra, fino al 1950, Giuseppe passò da un sanatorio all’altro, fino a che, finalmente ristabilito fece ritorno in Sicilia, a Monreale, dove la famiglia era nel frattempo ritornata.

 

Impiccato, 1944

 1944

 

                   Balera marrone. 1944              Balera blu, 1944

 Studio di donne, 1945

                   Testa di donna, 1945             Testa di donna, 1945

Paesaggio a Gaiato, 1947

 

È Domenica mattina e finalmente arriva il momento per la visita al Castello di Guiglia.

Se al Castello Montecuccoli volessimo attribuire delle qualità caratteriali, lo potremmo definire eclettico, flessibile, versatile e adattabile. A tali doti deve il suo buon stato di conservazione attuale. Esso infatti nacque verso il 1300 come fortificazione, divenne ricca dimora  dei Signori Montecuccoli verso il 1600, venne trasformato in uno stabilimento idro-elettro-terapico di fin de siecle dal gusto liberty, attraversò la guerra trovando salvezza come ospedale militare e come deposito di opere d’arte, si improvvisò per breve tempo come elegante casinò, si adattò a diventare  ristorante, bar, cinema fino a giungere indenne ai tempi nostri. Si salvò quindi nella sostanza da innumerevoli eventi avversi che in altri casi portarono alla distruzione gli edifici che li incontrarono.

Perciò la sua visita è alquanto singolare. Ci accoglie con un deciso aspetto di fortificazione medioevale. Ma quando le due ante del maestoso portone si aprono ci svela un elegante e fastoso ingresso loggiato sormontato da stucchi. Nell’ampio cortile interno, invaso dal sole, immagino che il piccolo Giuseppe abbia trovato, almeno per qualche tempo luogo sicuro e protetto per i suoi giovani passatempi. Eleganti sale affrescate a fine ottocento per la gioia degli ospiti dello stabilimento termale conducono alla severa torre merlata dall’alto della quale si domina Guiglia, la pianura modenese, le colline. Improbabili tavoli da gioco mostrano ancora i loro verdi tappeti. Sotterranei scuri e umidi ci riportano al medioevo.

La mia visita si conclude nel cortile d’ingresso dove trovo ad attendermi l’assessore al turismo del Comune di Guiglia. La sera precedente infatti ho chiesto notizie al titolare dell’hotel La Lanterna sul periodo della seconda guerra mondiale che vide mio padre ospite di questi luoghi. Egli non ha indicazioni da darmi perché nuovo del paese ma si impegna a rintracciare chi può averne. Così eccoci qui seduti ad un tavolino, in compagnia del sig. Paolo, nell’accogliente cortile. Ci scambiamo alcune informazioni. Io gli racconto la storia che ho sempre sentito narrare in famiglia. Lui la arricchisce con altri preziosi particolari. Forse papà alloggiava in un’ala del castello prospicente il cortile.

Mi emoziona essere in questo luogo che avverto familiare e conosciuto anche se non ci sono mai stata prima d’ora. Forse Pino da ragazzo sedette a lungo anche lui in questo cortile riflettendo sulla sua giovane vita, così turbata dagli eventi della guerra, e sul suo futuro ancora tutto da creare. Forse sognò una libertà in multicolor che potesse portare la pace e dove non ci fossero più orrore e paura. E di certo desiderò intensamente di trasferire quei colori sulla carta così come aveva imparato a fare per avere un po’ di serenità. Questi sogni embrionali non lo abbandonarono più per il resto dei suoi giorni e fu per sempre suo obiettivo realizzarli, nonostante le avversità dell’esistenza.

In tutti i casi è proprio in questo luogo che il suo destino, e quindi anche il mio in qualche modo, prese forma.

Torniamo verso casa. Nei giorni successivi riguardo alcuni disegni e alcuni quadretti tra i pochi conservati di quell’epoca e mi pare di riconoscere l’atmosfera e le architetture del Castello. Ambienti a volte un po’ austeri, come deve essere a causa del carattere medioevale di quel maniero, ma non privi di buon gusto e raffinatezza.

Il sig. Paolo mi manda del materiale che racconta gli avvenimenti di quei tempi. Tra questi una commovente testimonianza resa dal professore Zampetti, ormai anziano, durante un’intervista. Una fotografia della finestra di un edificio del castello è identica alla finestra che papà dipinse nel piccolo quadro “La mia cameretta”.  Questo dipinto da sempre è appeso nella camera dei miei figli. Mi sembra adesso, riguardando il quadretto e ripensando a Guiglia, che un filo continuo abbia guidato le nostre storie.

 

Fiori, 1943

Il pianoforte, 1944

 La mia cameretta, 1944

 

Francesca Gambino

Maggio 2025

18:01 , 22 Luglio 2025 Commenti disabilitati su Viaggio a Guiglia