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Sezione Opere

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Gambino […] percorse il difficile sentiero del rifiuto delle esperienze dominanti — volendone però seguire gli sviluppi nei luoghi dove fiorivano — lungo una strada che ben pochi critici accettavano di non definire “retro”, non prevedendo i futuri cambiamenti di vento, in seguito ai quali i realismi sarebbero diventati sinonimi di “ricerca avanzata” (non si parla più, per questi tempi, di “avanguardia”). Né si peritò di alternare passi avanti e ritorni, o boccate di aria nuova e ripensamenti e momenti di quasi-rèverie.
Mai abbandonando, però, la volontà di finezza, grazia, equilibrio, armonia, gentilezza; di quella bontà, infine, che mi pare manifesta in ogni suo tratto.
La spontaneità più genuina la troviamo in lavori che costellano l’opera omnia. Nelle […] macchiette”, anzitutto, che sono quelle piccole figure inserite in un paesaggio, o piuttosto, nel caso suo, in un frammento appena accennato di paesaggio, fatte “…di tocco con molta franchezza”, come scriveva Francesco Maria Tassi più di due secoli fa, per Domenico Ghislandi. E nei luoghi che gli sono appartenuti: la campagna vista da adolescente, pressoché esule in Emilia; quella Venezia dove — rapito d’amore per la città — si sarebbe creato la personalità di pittore; e la Spagna, nelle parentesi annuali del suo ritiro da ospite di prestigio. Reagendo, ovunque, da individuo che ha sofferto, e tanto; che è convissuto con la morte sotterrando, ragazzo, le vittime straziate della guerra che tutto macinava intorno a lui; […]. Senza mai dipingere poi, però, le scene degli orrori vissuti, ma lasciando fiorire, anzi, tutto il suo desiderio di solarità, cercandola anche nel magico “luogo che non c’è”, l’ou-tópos, l’utopia. Semmai ingentilendo, addolcendo, insaporendo il senso del quotidiano. E quasi che da quell’agonia gli nascesse il bisogno di seminare vita, è arrivato a fare una pittura felice, a scoprire persino — come ha intuito Pietro Zampetti, scrivendone in apertura del primo catalogo generale — “…l’umanità dei monumenti, […come] un messaggio di eventi vissuti, interpretandone il sentimento del tempo”.
Ma “…chi c’è dietro Gambino?”, si chiedeva ancora lo storico. “Nessuno…” concludeva. E non essendoci nessuno, di ogni sua opera è indiscutibile la originalità; in ognuna è riconoscibile la sua sigla. Solo suoi, infatti, sono la secchezza grafica, gli spessi fondali dal colore arato con spatole fatte appositamente per lui, i modi di smagrire i goticismi e gonfiare i barocchismi. Solo suo quell’autoritrarsi nei tanti volti — scarni, seri, delineati — di figure diverse: “anche se di autoritratti dichiarati non se ne conosce che uno, già pubblicato nel primo volume”, suggerisce chi gli è stato più vicino. Autoritratti di un uomo minuto, apparentemente gracile, ma fatto di pietra. Forte, determinato. E gentile insieme.
Suo è anche l’affanno di stipare del loro contenuto i dipinti, spingendo le immagini verso i bordi, e specialmente verso il bordo alto, con le merlature di un palazzo barocco, la skyline di un paesaggio, la punta del cappello dei carabinieri e l’emisfero di quello dei pretini, l’asta che fa da chiave di volta di una cupola, la cuspide di un campanile,… Un premere verso il fuori del quadro, non per mancanza di spazio pittorico ma per una metaforica, incontenibile pulsione di sfondare i limiti, di esplodere, di respirare l’aria di quell’ oltre.

Ennio Pouchard

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