
Dopo la guerra e dopo le sue sventure di salute Giuseppe Gambino, mio padre, tornò in Sicilia, a Monreale. Qui la famiglia aveva preso dimora a seguito di nonno Carmelo, funzionario della Soprintendenza alle Belle Arti, che ora lavorava presso il Palazzo Reale.
Era il 1952. Provato nell’animo e nel fisico Giuseppe si rifugiò, forse in cerca di pace e serenità, nella sua terra natale che aveva lasciato nel 1929, ancora bambino. Subì il colpo di fulmine per i mosaici del Duomo, che gli si imprimeranno per sempre nella memoria. Riuscì a realizzare la sua prima mostra di disegni e dipinti: una personale all’Hotel Savoia di Monreale. Tuttavia la chiusa mentalità isolana si scontrava sempre più con il suo desiderio di scegliere il proprio futuro.
Fu così che rocambolesche vicende lo spinsero ad abbandonare definitivamente la sua terra. Da quel giorno i suoi ritorni in Sicilia furono rari e saltuari.
Nel 1953 si trasferì a Bologna. Vi giunse con scarsissime risorse e per un certo periodo condusse una “vita da bohémien”, anticonformista, libera ma economicamente molto precaria. Fece ritratti alle persone per strada per racimolare qualche quattrino, non volendo sacrificare la propria libertà espressiva, ma dovette ad un certo punto cedere e cercare un lavoro più sicuro.
Raccontava papà che iniziò a collaborare con uno studio di Bologna impegnato nella realizzazione di lavori di grafica pubblicitaria per l’ENI di Enrico Mattei. Di questa collaborazione non possiedo nessuna evidenza documentale, ma solamente le poche informazioni avute da mio padre. Pare che egli abbia lavorato anche allo sviluppo del cane a sei zampe, logo e identità della compagnia. Probabilmente lo studio di grafica in cui si trovava contribuì a sviluppare questa intramontabile icona che proprio Mattei aveva voluto come simbolo perenne della sua azienda. In ogni caso quel cane con le sue sei zampe nere, pelose e zoccolute dovette segnare in maniera significativa la sua immaginazione tanto è che molti animali che in seguito disegnò conservavano con lui, a mio vedere, alcune somiglianze.
L’unica traccia di questo contatto che riscontro è una serie di lettere giunte a mio padre da parte di un funzionario della Direzione Studi Economici e Tecnici dell’ENI nel 1955. Non so dire di chi si trattasse perché mi è impossibile decifrarne la firma, tuttavia la corrispondenza tra loro fu frequente.
Questo signore scrive spesso di opere ricevute da papà che hanno incontrato il gusto e i desideri di alcuni clienti. Forse era nel tempo libero un illuminato mecenate che aiutava artisti in erba come papà a farsi largo e soprattutto a ricavare qualche guadagno dal loro lavoro.
Una lettera in particolare mi colpì. Essa è datata 01 Agosto 1955 ed è dattiloscritta. La riporto integralmente:
“Carissimo Gambino,
finalmente le scrivo, ma non ho il tempo purtroppo, di farlo a lungo come vorrei.
Ho ricevuto i disegni e cercherò di “piazzarli”, ma la stagione non è la più propizia!
Le scrivo però per un’altra ragione: sul “Gatto Selvatico” (il giornale aziendale dell’ENI) pubblichiamo un racconto per ogni numero illustrato da un pittore.
Nel prossimo numero dovrebbe apparire questo racconto di Pea. Mi fa uno o due disegni illustrativi? Meglio se orizzontali. Non si preoccupi della grandezza che poi ridurremo.
Il compenso sarà di 15 mila lire. Grazie e i miei più affettuosi saluti e auguri”
In calce la solita firma non decifrabile e scritto a mano e in stampatello È URGENTISSIMO!
In allegato vi erano due fogli di carta leggera, come quelli che si usavano un tempo, quando le e-mail erano ancora un concetto inesistente, per inviare la posta aerea. Dattiloscritto era il citato racconto di Enrico Pea:
“UN MIRACOLO
Quando entrammo nell’aia della nuova casa, indicata come fuori da operazioni di guerra, noi, fuggiaschi dal paese che avevamo creduto minacciato da imminente offesa, restammo impietriti. Ornato il casco, fucile e persona, di ramoscelli, per sembrare veduti dall’alto fronzuti cespugli, trovammo le sentinelle immobili presso i carri armati occultati sotto le mannelle del grano.
Avviliti di questa sorpresa. E stanchi, scesi dal carro (i ragazzi più grandicelli volevano il pane, e la Cincia, di cinque mesi, in fasce, allungava la manina alla puppa della madre) ci mettemmo all’ombra, sul praticello dietro la casa. Ma subito, il contadino dell’aia vicina, venne a dirci che quel prato era suo, e che non voleva gli si calpestasse l’erba.
Più che una rivolta a questo ardito divieto, ora ci assali il rimorso della famiglia abbandonata a «Lammari» e dove eravamo venuti via. E si chiarì nel nostro pensiero la fortuna che non avevamo saputo vedere di quel paese (rifugio della prima fuga) molestato dalla polvere, dalle mosche, senza alberi: aperto e assolato. Caldo anche la notte. Ma sulle cui strade però, il tedesco ha da camminare svelto, senza sostare, se non vuole essere visto e mitragliato dalle macchine che incessantemente trasvolano.
Alle tre del giorno dopo eravamo già in piedi. Le materasse su cui abbiamo dormito debbono essere arrotolate, legate e caricate prima delle altre masserizie e dei bauli, sull’unico carretto piccolo che abbiamo potuto trovare, tirato da un asino. Noi dovremmo andare a piedi, se non troveremo qualche mezzo lungo il viaggio.
Spenta la candela e aperta la porta sull’aia notiamo che al carretto è stato staccato l’asino. Da lontano la voce del vetturino avverte che c’è pericolo.
Nel cielo, senza un cirro di nubi, un «ricognitore» par falco che faccia la ruota alla preda, su cui tra poco piomberà rapace ad artigli agguerriti. Occhieggia con luce di bel colore, nel cielo turchino, ora con un occhio, ora con l’altro. È sicuro di sé, si abbassa sull’aia proprio come se volesse accertarsi, lui re dell’aria, prima di umiliarsi a scendere sulla sudicia terra dove tutti ci sentiamo «braccati» da un destino crudele, tutti, uomini e animali.
Una divina incoscienza assiste i miei quattro nipoti. Nemmeno quello giovinetto capisce la gravità delta situazione. E la paura non lo sfiora. Soltanto gli uccelli hanno tutta la sua carità. E per via di quelli non vorrebbe muoversi prima che si avviasse il carro, su cui anche gli uccelli troveranno posto.
Gli uccelli che, poc’anzi (le gabbie abbandonate per terra dal vetturino, frettoloso di metter l’asino in salvo), aggrediti, per poco non sono stati ghiotta preda del gatto, una furia lo ha riacceso, di felino dei tempi lontani. Il mansueto animale, che, ieri, stesa la pancia al sole, gioiva delle carezze del mio nepotino Gigi, e, ritraendo gli unghiotti sotto i polpastrelli per non graffiarlo, giocava, anche lui bambino, cresciuto fra i ragazzi di questa casa. Ma all’improvviso il fosforo negli occhi si è fatto maligno. Si è avventato sulle gabbie, per squassarle, avido di sangue. E, i canori, nemmeno delle ali potevano servirsi a difesa. Sbattevano le piume sulle sbarre della prigione pigolando: aiuto! Aiuto! Disperate vittime.
Il barroccio è giocoforza percorra la via carraiola. A noi hanno insegnato le scorciatoie. E un contadino volenteroso di aiutarci, vuol venire per un po’ di strada. Ritornerà indietro
con la bicicletta. Così guidati traverseremo in linea retta da questo monte alle spalle di Pisa, all’altro che occulta la valle del Serchio. E nemmeno più pensiamo al pericolo che nel dedalo delle strade serpeggia nella pianura.
La Cincia, che da tre giorni ha compiuto cinque mesi, presta ogni tanto il suo carrozzino a Gigi che degli anni ne ha tre. Lei è signora e le piace variare, tra le braccia della mamma e la carrozza. E Gigi, negli intervalli, cavalca la bicicletta del contadino, portata a mano. Gli altri due ragazzi si sono tolti le scarpe e vanno scalzi senza dispiacere, che anzi per loro rappresenta una novità.
Già, venendo via, abbiamo esperimentato il primo «viottolo» che, rasentando il muro
del Cimitero, mette nella strada presso la Chiesa del paese. E al cancello, i ragazzi si sono fermati, meravigliati di un lumicino acceso sopra una fossa a differenza delle altre, ben custodita e ornata di fiori.
«E’ proibito far pascolare le bestie all’ingresso del Camposanto». Questa scritta stava infissa al cipresso, intorno a cui l’erba di quel pratetto che dava accesso al luogo Santo, doveva esser stata falciata e bruciata di fresco.
L’allarme non ci arresta: chè qui sotto le piante, dall’alto, occhio umano non vede. Ma appena risbucati nella strada scoperta (e tutta così sarà da qui in poi) e l’allarme si rinnova, risiamo al fuggi fuggi impazzito di sempre, in mezzo ai campi, chè la strada, brulicante di fanti tedeschi carriaggi, cavalli, può essere mitragliata.
La stazione di S. Leonardo, bombardata stanotte, è groviglio infernale di macchine di vagoni e di calcinacci. E all’altra di Tassignano, che incontriamo dopo, fuma ancora l’incendio. Da sopra il ponte dell’autostrada ormai guasta, vediamo nel campo di aviazione, stentinati, in pezzi, gli aeroplani con la croce uncinata ubriaca ridotti in mucchi di ferraglie. E dal ventre dei capannoni, ora che sono scheletri, lustrare al sole ordigni meccanici: attrezzi e mobili. Con queste visioni, con le apprensioni ogni poco rinnovate, passiamo in mezzo alla guerra. La strada «pesciatina» sempre in fermento (di lì si convoglia la ritirata), appena in tempo si fece ad attraversarla davanti alla Chiesa di Lunata, che le sirene da Lucca urlavano. Questa volta ci sentiamo sicuri. Dalla chiesa piena di fedeli (oggi è domenica), nessuno esce, anzi gente si affretta ad entrare. Noi ci mettiamo al riparo sotto l’arco che sventra la base del campanile addossato alla Chiesa e serve da passaggio nella porticella, dove una scaletta esterna conduce all’abitazione del Parroco, che si chiama: Don Angelo.
Fu in quel cortile, ove si apre anche la porticina riservata della chiesa, che finito l’allarme, seduta sul primo scalino della scaletta di pietra, la madre della Cincia si mise ad allattare.
Le funzioni dovevano essere terminate in quel momento, perchè le campane suonarono a distesa. E suonarono per un bel po’ assordanti per noi che stavamo lì sotto, tra chiesa, casa e campanile, come in un pozzo. E mentre ancora le campane oscillavano, senza che però adesso i batocchi percuotessero i bronzi, io, che stavo ad occhi levati, vidi staccarsi dal sommo del campanile un sasso. Non ebbi tempo per nessuna azione che il bolide giù a piombo sopra di noi battè in un ostacolo. Deviò in tralice e, strisciando arrossò senza lacerare, l’anca nuda della bambina, al seno della madre. «Dite voi, dite voi: questo non è un miracolo?». Era la voce del «Parroco senza paure», Don Angelo Unti, che una settimana dopo moriva martirizzato. «Dite voi, dite: questo non è un miracolo? E’ un miracolo ad avvertirci dell’inutilità della fuga, che tanto, per la morte non vi sono nascondigli».”
Incuriosita da questo carteggio mi documento sul web in cerca di più informazioni.
Enrico Pea, nato a Seravezza nel 1881, fu poeta e narratore di grande talento. Condusse un’esistenza travagliata tra i cantieri di Livorno e le strade di Alessandria d’Egitto; fu amico di Giuseppe Ungaretti e stimato da Ezra Pound; fece della scrittura il suo linguaggio per raccontare la vita popolare di terra e di mare. Morì a Forte dei Marmi nel 1958.
Il suo racconto certamente colpì papà perché raccontava così bene di quella paura e di quel terrore che lui stesso aveva provato in quegli anni appena passati di orrore e incertezza. I luoghi del racconto non erano poi così distanti da quelli dove egli aveva trascorso, ancora giovinetto, le vicende della guerra. Gli era dunque facile immedesimarsi e cercare di esprimere con il disegno le circostanze di quella situazione. Chissà quindi quale era stata la sua idea, pensai con un po’ di rammarico per non poter vedere quel lavoro. Chissà poi se il disegno, ammesso che fosse stato eseguito, era piaciuto alla redazione. Chissà che fine aveva fatto il lavoro originale. Chissà se papà era riuscito a guadagnare quelle 15 mila lire.
Ma ancora voglio sapere di più sulla famosa rivista. Navigo allora sull’interessantissimo sito web dell’Archivio Storico dell’ENI. In esso sono conservate molte tipologie di documenti che consentono di ripercorrere la storia di ENI e delle sue società. Si tratta di documenti tecnici, fotografie, filmati, testimonianze. Tra questi documenti trovo anche una sezione dedicata alle riviste aziendali. Vi leggo che il primo numero de “Il Gatto Selvatico” usci nel luglio 1955, l’ultimo nel marzo del 1965. Si trattava di una pubblicazione rivolta ai dipendenti, sullo stile di un settimanale, stampata a colori e con molte fotografie, con articoli culturali, rubriche di sport, cinema, moda, gastronomia. Fu fortemente voluto da Enrico Mattei.
Sul sito è possibile sfogliare la collezione completa de “Il Gatto Selvatico”.
Ed è proprio nel Numero 3, anno 1, del 3 settembre 1955 che, stupita, trovo a pagina 15 il racconto di Enrico Pea e il disegno di papà! Dalla lettura dei due fogli dattiloscritti che aveva ricevuto egli disegnò in bianco e nero la madre della Cincia seduta a terra tra il piccolo carretto e la gabbia degli uccellini. Ha le braccia strette attorno alla vita, quasi a cercare conforto dopo il terribile spavento che aveva vissuto. Lì accasciata pare ringraziare quel miracolo che aveva salvato la sua piccola bambina. Il racconto fa da cornice al disegno. Assieme occupano tutta la pagina.
Sono così felice di questo insperato ritrovamento che anche a me questo sembra un piccolo miracolo.
This entry was posted on sabato, Agosto 9th, 2025 at 10:46
You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed.
Posted in: About Gambino