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Antologia Critica

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Antologia Crititca Completa

1954

Questo giovane ha conosciuto una storia che preferisce non raccontare. I tedeschi nella furia indemoniata della guerra avevano costretto per mesi un adolescente smilzo a sotterrare morti.
Era un lavoro scontato giorno per giorno con un raccapriccio che cresceva e lo prendeva tutto, questo ragazzetto siciliano ai lavori forzati, dietro la linea gotica.
Poi improvvisa la pace aveva interrotto questa vicenda di paura e di pietà; e il destino riservava nell’ozio obbligato di molte giornate alpine a questo ragazzo becchino di raccontare volti e mani di tutto un mondo d’uomini, apparso e scomparso in ore fuori dal tempo, fermo alla memoria, ai bordi della coscienza sbigottita. Visi, figure, mani e gesti immoti: appunti di una lunga storia fatta d’angoscia e di senso della morte.
Era come una liberazione dall’incubo; ma era anche il bisogno di precisare e definire il ricordo. Anzi nel tempo l’esercizio spontaneo del disegno assunse questo preciso significato: la necessità di recuperare tutta un’esperienza di vita pregnante di paure, per ricondurla dall’ambito di una memoria indistinta a quella definita e certissima del sentimento.
La linea inseguiva sul foglio la vicenda di molte giornate: analizzava, penetrava, scopriva come per caso dai più diversi materiali episodici lo stesso identico, monotono significato: questo drammatico vivere di un ricordare, disancorato dai nessi del tempo, di tanto umano morire.
Vi era di volta in volta il farsi, e il crescere e il definirsi, quasi all’insaputa del giovane artista, di una straordinaria realtà insita nella vita stessa delle forme, che era la forma stessa. Questo dar forma ad un mondo di disordine e d’iniquità era il più alto riscatto a cui tendeva questo giovine artista, ed è ancor oggi la sua tormentosa ambizione.
Il segno fruisce incidendo un profilo, poi si solleva e si smaglia in colore.
Fa venire alla mente certo Scipione. Ed è sicuro che molte cose Gambino potrà ancora raccontare; non è un pittore precoce e facile, è un giovane artista che opera solitario, con difficoltà su di un mondo che lui sente dolorosamente terremotato.

Personale alla Bevilacqua La Masa – Venezia, Giuseppe Mazzariol


Prima d’oggi Gambino non aveva figurato in nessuna mostra, neppure con un disegno, aveva lavorato da solo, come un forsennato in centinaia e centinaia di fogli ai quali aveva confidato l’urgenza di un 226 mondo figurativo, di fondo spesso tragico e talvolta ironico che gli urgeva dentro. […] Gambino presenta una serie di disegni scarni, ossuti con forti segni neri, in cui si affaccia un’umanità povera, spogliata, quasi senza carne. Non insiste però sulla tragedia. Da buon siciliano sa trarre un continuo rapporto con la vita, attraverso una immediata linfa di ironia che anima le sue figure e rende inconfondibile il suo segno. Qualcosa che sta tra Maccari e De Pisis…”.

Da “Il Gazzettino” del 29 ottobre, Guido Perocco

1955

Agli inizi – e risalgono a poco più di un lustro – Gambino aveva mostrato una propensione piuttosto marcata, se non proprio esclusiva, per la rappresentazione di taluni tipi, e quindi si caratterizzava nel gusto per l’episodio illustrativo dove più che la risolvente stilistica contava l’arguzia della scena e della figura. Non fosse stato per l’intervento del colore vivace, sentito, e per la misura della composizione, attenta e sobria, le tele di allora sarebbero passate inosservate: invece proprio alcuni accordi cromatici e alcuni ritmi compositivi palesavano una dote non comune, sintomatica ancora nella sua immaturità di futuri sviluppi. Fu possibile avvedersene presto, perché dopo due o tre anni Gambino aveva superato questa fase per intraprenderne un’altra meno legata alle suggestioni illustrative e meglio avviata verso risoluzioni poetiche più pure.
Cominciò allora la serie delle Venezie: gli edifici di questa singolare città, visti sotto un aspetto così speciale da renderli difficilmente individuabili tant’erano disadorni, diventarono il tema ricorrente delle sue tele. Gambino disciplinò la struttura del quadro con un rigore severissimo, quasi costringendosi in un ordine che non ammetteva concessioni alle piacevolezze del gusto, ma guadagnando in potenziale poetico: tutto gli nacque dentro da una visione fantastica in cui dominava il telaio fermo delle geometrie essenziali. Il colore vi era modesto, come timoroso di sovrapporsi a quell’ordito, e appena qua e là azzardava accenti più acuti: valeva insomma sopra tutto il disporsi delle linee che segnavano muri, porte, finestre, e limitavano uno strutturarsi della composizione per modulazioni di tonalità gravi, tra il bruno e il grigio per lo più. Sotto sotto però fermentava qualcosa di meno semplice: quelle tonalità cioè non erano più soltanto descrittive o simboliche, bensì da esse affiorava una ricerca che puntava sulle risonanze interiori.
A queste Gambino si è oggi accostato con proprietà meglio precise ed esercitate. Direi che egli dà ora principio ad una terza fase d’esperienza, e che è la più valida, perché ha superato un altro ostacolo: quello dello schematismo, che già l’aveva minacciato nei primi lavori.
Gambino non è un pittore di facile appagamento e la sua intelligenza lo mette subito in guardia contro i pericoli cui può andare incontro: evita da solo e molto presto di rinserrarsi in una formula, per aprire e tentare nuove vie al suo sentire poetico. Ha eseguito infatti in questi mesi alcune nature morte dove il colore è rivenuto ad esaltare tutta la composizione con una intensità così diretta e precisa quale fino ad ora non aveva mai mostrato con tanta sicurezza. In simili esempi il quadro si realizza per un processo formale e cromatico dove i due esponenti vanno di pari passo, senza che l’uno prevalga sull’altro.
E qui mi pare che siamo per toccare una zona creativa di maggiore prospettiva universale, di maggiori echi interiori, di maggiori vantaggi espressivi: tanto più indicativo questo raggiungimento, ove si consideri il cammino percorso da Gambino nel giro breve di pochi anni e 1’affinarsi delle facoltà linguistiche che l’ha accompagnato. Non è possibile non prenderne nota, e constatare che l’artista si avvia per gradi a entrare nel vivo della cultura contemporanea assorbendone via via i dati più sicuri per scartare invece i facili assestamenti mimetici.
Il suo fare, benché non coinvolto nelle dibattute e acute istanze dell’attuale condizione artistica, ad esse non rimane comunque indifferente, e già appare che ne viene toccato e si approssima a intervenirvi con proprie ragioni e propri motivi. Per questo Gambino va seguito con attenzione e per questo va lodato.

Personale alla Galleria Comunale d’Arte – Udine, Umbro Apollonio


“…E evidente […] una costante ricerca di esprimere, attraverso una poetica d’ingenuità e di pietà, tutta una sofferenza di vita di provincia, di gioia fatta dal nulla e di amore…”

Da “Il Piccolo di Trieste” del 3 maggio, Arbo

1957

Ruskin avrebbe ammirato queste immagini di edifici veneziani del Gambino; si sarebbe mosso a decantare lo spirito, in un certo senso, primitivo che circoscrive e impreziosisce spazi di pietra e d’intonachi antichi di queste facciate di case e di palazzi, dipinte. Si sarebbe mossa la poesia del Ruskin per la storia segreta che esprimono linee e colori di queste architetture del Gambino che non s’incontrano mai con il cielo, quasi abbiano, esse, concretezza reale sopra un piano astratto.
Il Poeta sarebbe stato nel giusto; però, io credo, non si sarebbe accorto del calore e del colore che sale dal sud su quelle pietre e mura, di quel disadorno nel prezioso, cioè di quell’intervento di natura prepotente che vince quel tanto d’intellettualistico che è nell’opera. In queste sue opere il Gambino si muove senza incertezze, realizza, oramai, agevolmente. Le “figure» e le «nature morte» sono in altra condizione.
Quel che prevale, o che è, nelle «facciate di edifici» è quel che è stato detto e appartiene all’ordine maggiore delle facoltà espressive.
Nelle figure, interessanti che siano, è il caratteristico, arguto, ironico, ma illustrativo: a badare bene, poi, è chiaro che, mentre nei dipinti degli edifici lo stile aderisce naturalmente alla cosa, nelle figure l’oggetto è costretto allo stile, quasi sacrificato.
Nelle «nature morte» il discorso si distacca dai precedenti.
Qui i problemi si pongono più universalmente dominando le condizioni troppo scoperte del sentimento, degli umori, delle impressioni: si può parlare qui di sintesi, di geometrie, di colore in sé, ecc., ecc.

I risultati sono già abbastanza sicuri, non quanto nei dipinti degli edifici, ma più aperti al futuro, ad altre inevitabili soluzioni.

Personale alla Galleria Barbadoux – Milano, Virgilio Guidi


“…I pericoli, gli stenti e le paure tu li hai vissuti […]. Eppure tra quel frastuono di bombe e di aeroplani, tra morti da seppellire e ‘rastrellamenti’ da evitare, tu hai trovato il tempo, già allora, soprattutto allora, per dipingere. Cercavi la liberazione da tanto male entro te stesso e ti rasserenavi nel lavoro creativo, nella cosciente fiducia in un mondo che andavi vagheggiando […]. Tu hai resistito, hai vinto. Perché? Perché, malgrado tutto, credi nella vita e credi negli uomini. Hai fede. Basta guardarti in faccia con quegli occhi ridenti e i capelli arruffati […].
Ora sei a Venezia, tutto preso dall’incanto lagunare; e lavori gioiosamente, accanto alla giovanissima sposa. Hai fatto delle ottime cose in questi ultimi tempi, già migliori di quelle con tanta fortuna esposte all’ultima Biennale. Le vedute di Burano sono una testimonianza della tua attività di oggi: esse danno una prova illuminante del tuo gusto così controllato e raffinato; nonché della tua sensibilità sempre più aperta e larga verso il fatto cromatico…”.

Personale alla Galleria della Medusa – Roma, Pietro Zampetti


“…quanti oggi fanno quelle ‘facciate di edifici’ che espone il siciliano Giuseppe Gambino alla Barbaroux di via Rossini. C’è tutta una scuola, cui Gambino appartiene, e che si è formata dopo la mostra del paesaggio di città americane dell’ultima a Biennale…”

Da “Arti Plastiche e Figurative”, programma radio – Milano, 10 gennaio


“Saverio Barbaro, Renato Borsaro, Giuseppe Gambino e Alberto Gianquinto, fedeli alle radici della pittura così detta figurativa, sono i migliori [… e] non cedono a semplici abilità esteriori, ma cercano di dare vita interiore e distinta alle loro rappresentazioni”.

Da “Venezia” del 15 febbraio, Giulio Alessandri (per la collettiva Bevilacqua La Masa – Venezia)


“…Gambino ha portato con sé dal cielo siciliano il segreto di una timida dolcezza insieme con un amore affettuoso per gli uomini e le cose […]La sua pittura è legata a questo segreto: pare impossibile, oggi come oggi, unire un fatto pittorico ben preciso e in fondo così avveduto, come quello di Gambino, ad un suggerimento che sembra tanto lontano dalla pittura. Si arrischia la retorica o il vago sentimentalismo. Eppure esso è il motivo conduttore e costituisce il lievito della sua arte. Dopo tanto ‘sentimento’ dell’Ottocento è giusto che anche in pittura se n’abbia paura: ma quando un vero artista lo scopre con così immediata nitidezza e sa partecipare con esso alla visione delle cose, allora è naturale che si senta nella sua opera una rivelazione che ci tocca intimamente.
Gambino ha potuto tradurre nei suoi quadri quello che Zavattini e De Sica hanno cercato in altre arti, con un sapore di gioco e un piacere nel ricorso di fantasia, che distinguono nettamente la sua opera di pittura. […]. Appare in queste sue opere, a guardar bene, una consumata sapienza cromatica, specie quando l’artista si sofferma sugli antichi muri delle case, sul trascolorare alla luce degli intonaci consunti, oppure sul lucido intarsio dei marmi tra il rincorrersi scanzonato delle finestre e la fuga degli archi…”.

Personale alla Galleria Santo Stefano – Venezia, Guido Perocco


“…Gambino ha nel sangue, come i veneziani, la pittura musiva, e il parallelismo delle due civiltà dimostra la rapida consonanza delle nature apparentemente contrastanti: nella cattedrale di Monreale risplende, con il bizantinismo comune, l’oro di San Marco. Anzi tutto diventa più chiaro anche per l’unico tono aurato che chiude tutte le pitture di Gambino, il quale nella essenziale frontalità raggiunge l’antica ‘aspazialità’. Inoltre il disegno, appuntito e inciso, stretto e allungato nelle proporzioni, è di un goticismo che ancora più si accorda con l’ambiente…”

Da “Il Gazzettino” del 2 giugno

1958

“…anche noi crediamo che il Gambino superi il rischio della retorica e del vago ‘sentimentalismo’, ‘il pericolo di un suggerimento letterario o di contenuto’ […] nella intensa ricerca di un colore sempre più ricco, più profondo, più vario”.

Da “Il Gazzettino” del 28 gennaio, Gigi Scarpa (per la collettiva Bevilacqua La Masa – Venezia)


“…E una pittura di gusto, e facile, che può in un attimo dissolversi in un ispido ‘vedutismo’, qualora il Gambino non attinga forza da quel sentimento macabro-amaro che è la sua vera linfa, la ragione di alcune sue opere poetiche”.

Da “Minosse” n.32, a sigla O.K. (per la personale alla Santo Stefano – Venezia)


“Gambino sa dare alla figura una impronta ascetica su una originale astrazione della forma, che resta al di fuori della ‘maniera neogotica’ o Liberty del primo Novecento […] per cui la stessa stilizzazione si compie in un tessuto cromatico che diventa spazio allusivo, tutto inventato in una inquadratura meditata e sottile”.

Da “Il Taccuino delle Arti”, Guido Perocco

1959

“…Mrs Robinson urged me to come to New York to see her benefit exhibit […]. I have 45 pictures of Guiseppe (sic) Gambino, a young Venetian artist. I’ve got him under contract for fìve years. I have seven young painters, all married. I’ve raised them from $40 to $5000 a painting”

Da “The Cincinnati Post” del 9 maggio, Margaret Dunlop Weaver


“…Sono brune intelaiature, che non scindono gli specchiati partiti coloristici (rossi sontuosi, gialli accesi, viola crepuscolari, bianchi roridi) ma li legano a mo’ d’antica vetrata, in una filtrata sinfonia d’una suadente fin mistica suggestività…”.

Da “L’Adige” del 19 maggio, Giulio De Carli


“…Mrs. Robinson has collected so many paintings by the contemporary Italian Giuseppe Gambino, that they fill a separate gallery. Most of them are two-dimensional views of old Italian facades […]. His other themes include […] a stark, statuesque ‘Death of St Francis’ tryptich”.

Da “San Francisco Exammer” del 19 giugno, Alexander Fried

1960

“…Lodevole lo sforzo di questi 7 giovani di uscire dal vicolo cieco della così detta arte d’oggi (leggi astratto-informale) con uno spirito non di negazione come chi opera nell’altro campo adotta nei confronti del loro linguaggio, ma di chiara polemica fatta con il contenuto delle loro opere”.

Da “La Voce di San Marco” del 18 giugno, Manlio Alzetta (per la mostra “Sette Pittori d’oggi” a Venezia)


“L’Ufficio Stampa della Biennale con una lettera perentoria ha intimato ai 7 pittori d’oggi di togliere il ‘lenzuolo’ che annuncia la loro mostra e che pende da una finestra dell’ala napoleonica. Ora la Biennale reclama il diritto di appendere allo stesso posto un suo telone reclamistico, adducendo il pretesto che nelle passate edizioni quel posto le era stato sempre riservato. La lettera dell’Ufficio Stampa della Biennale a firma di Wladimiro Dorigo non fa sperare in altra soluzione che quella di spostare il ‘lenzuolo’ di una decina di metri, in un punto assai poco frequentato e nascosto”.

Da “La Notte” del 14 luglio, Mario Portalupi (per la mostra “Sette Pittori d’oggi” a Venezia)


“…Un gruppo di sette artisti locali non invitati ‘naturalmente’ alla Biennale hanno […] allestito una folta e impegnata mostra collettiva nel salone dell’Ala Napoleonica, in Piazza San Marco [con] un catalogo che conteneva una coraggiosa protesta […] elevata da due personalità della cultura veneziana quali il prof. Guido Perocco, che dirige intelligentemente la locale Galleria di Arte Moderna, e il prof. Pietro Zampetti, sovrintendente delle Belle Arti in Venezia.
Per misurare la portata di questo gesto, basterà ricordare che è il prof. Zampetti, il quale ha fatto parte della commissione per gli inviti della Biennale, a scrivere (tra l’altro) nella sua prefazione queste parole: ‘Oggi vengono pregiudizialmente, polemicamente, rifiutate le opere figurali […]. C’è modo e modo di esercitare la violenza: c’è quella fisica e quella morale. Questa seconda, meno appariscente, è più insidiosa e sottile e travolge gli ingenui, i deboli, gli sprovveduti’. E un esempio, questo, di dignità e di indipendenza, che dovrebbe essere seguito dai più seri dirigenti delle Belle Arti in Italia”.

Da “Mondo Nuovo” del 11 luglio, a sigla D.M. (per la mostra “Sette Pittori d’oggi” a Venezia)


“In pochi anni, Gambino è uscito dal guscio illustrativo e ha centrato il 228 su0 problema pittorico.
Appena trentaduenne lo si direbbe un maestro d’alchimia. Per lui l’alchimia è la misura di una Venezia architettonica vista con occhi moderni, quasi isolata, depurata da ogni suggestione romantica…”

Da “Il Gazzettino” del 23 agosto, Paolo Rizzi (per la mostra “Sette Pittori d’oggi” a Venezia)

1961

“-Le pare […] che il figurale possa rappresentare con efficacia il mondo culturale, psicologico, spirituale e politico in genere, di oggi?
-Sì, sono convinto del bisogno che l’uomo ha di esprimersi attraverso una sigla di cose. D’altronde sarebbe assurdo rinnegare la storia dell’arte dai primi graffiti a oggi. Comunque riconosco la piena validità dell’astrattismo, nel quale come nel figurativo è presente la coscienza dell’uomo.
-Un altro argomento […]: un ritorno massiccio al figurativo, o anche la sua resistenza (parola forse non più attuale) in un periodo quasi generalmente astratto come l’attuale, costituirebbe (e costituisce) un atteggiamento reazionario e conservatore?
-No, non c’è antagonismo storico. Non esistono conservatorismo e progressismo corrispondenti a determinate tendenze. Oltretutto, il genio determinatore spunta improvvisamente e non appartiene a nessuna fazione. Per esempio si guardi all’ultima Biennale: Kline, questo pittore dal gesto così preciso, si mangia mezzo padiglione italiano. Ha superato venti grossi pittori in un colpo solo. […]
-Le pare che la ricerca polimaterica possa rappresentare un passo avanti della pittura o forse anche una esperienza finale che servirebbe a bruciare le ultime conseguenze dell’informale favorendo subito dopo un ritorno massiccio e più giustificabile del figurale?
-Secondo me la ricerca polimaterica potrebbe rappresentare un passo avanti, o meglio anch’essa è giustificabile. Non si può dire che certe materie favoriscano l’arte più di certe altre, in fondo tutto ciò non è una novità: la ricerca accennata costituisce un ritorno a certi mezzi artigianali in uso nel passato, per esempio nelle madonne bulinate del Duecento; Fabbri rappresenta la distruzione della materia e della figura umana; i sacchi di Burri l’avvilimento della materia in relazione alle condizioni umane dell’autore stesso…[…]
-Lei come definirebbe la sua pittura se dovesse inquadrarla in un filone storico e culturale?
-Mi pare che non la potrei definire con esattezza. Ho avuto amori profondi, per i primitivi, il Trecento, gli espressionisti, ma il risultato mi sembra atono. Il mio stesso modo di vivere è isolato…”.

Da “Il Veneto” del 3 marzo, Giovanni Sartorelli (un’intervista al pittore)

1962

“Giuseppe Gambino è nato in Sicilia ed a vent’anni è venuto a Venezia seguendo la sua vocazione per l’arte, portando con sé il calore, la ricchezza di fantasia e la venatura sentimentale che sono proprie della sua terra.
L’incontro con Venezia è stato fecondo, perché Venezia ha aiutato il pittore ad esprimersi con l’incanto naturale del suo colore e l’insegnamento delle sue antiche pietre. E’ sorta così, quasi d’improvviso, la pittura di uno dei più originali giovani artisti italiani, sui quali facciamo affidamento perché ci indichino una strada nuova.
La posizione di Gambino è irta di pericoli, originati dalle qualità stesse dell’artista, dalla sua immediatezza, spontanea come un canto. La sua pittura ha quel che di gioco, di fantasia per fantasia, ventilata dai sogni dell’infanzia, che s’oppone a qualunque presupposto teoretico. D’altro canto c’è nell’opera di Gambino un senso di misura e di controllo, una saggezza, che si intuiscono a primo sguardo nelle immagini più diverse. Questa saggezza ci fa pensare all’antico significato della pittura, alla sua “innocenza”, prima che addensassimo intorno ad essa una così grande carica di fattori intellettuali.
Gambino può aver torto o aver ragione, ma in ogni caso bisogna tener presente la sua posizione, come gli umori più diversi e più strani affiorino nel suo contesto pittorico.
Timidezza, affettuosità, ironia, scanzonatura: si tratta di elementi difficilissimi da accordare in un dipinto, ma che Gambino sa far rivivere insieme un po’ in tutti i suoi soggetti, dalla figura umana alle facciate di antichi palazzi veneziani, da vecchi muri consunti alle nature morte sperdute su campiture enormi. Tutto diventa prezioso come sulla superficie di un mosaico, in cui la materia lucente sa vibrare su immagini che acquistano un significato particolare nella primitiva semplicità.”

Guido Perocco

1963

“Poiché la richiesta di un’alternativa, di fronte al recente collasso degli astrattismi, si va facendo perentoria, bisogna via via rispondere, portando nelle prime file dell’inesausta lotta dei nomi e, naturalmente, delle opere. Fra quanti sino a ieri, non essendosi arresi alle suggestioni della moda, venivano relegati in fondo alla platea o ignorati, abbiamo il venturoso compito di scoprire e mettere in luce i nuovi artisti: gli astratti apparterranno alla prima metà del secolo (già eravamo agli epigoni degli epigoni); i nuovi vengono fuori da adesso, col fervore della loro giovane età e con la persuasione maturata in clima di fascismo artistico. Si pensi che i meno vecchi fra i primi hanno di molto superato o comunque doppiato la cinquantina; nessuno dei «nuovi figurativi» ha oltrepassato i quarant’anni. Una generazione tramonta, un’altra sorge. Mentre, dunque, un’avanguardia scaduta in accademia trovava i suoi impegnatissimi esegeti che vantavano o aspiravano al crisma dell’ufficialità, i giovani più consapevoli hanno saputo operare a loro modo, ignorando la falsa angoscia degl’informalisti, lavorando alla nascita di un’arte nuova che non ha bisogno di trovate più o meno goliardiche per giungere a un rinnovamento e per affermare la continuità, nell’alveo di un equilibrato divenire, dell’arte come espressione leggibile dell’eterno travaglio dello spirito.
Alla schiera, che abbiamo l’obbligo di definire ogni giorno con maggiore esattezza, dei rinnovatori che vanno sostituendo i ripetitori di poetiche ormai scontate, appartiene senza dubbio il pittore Giuseppe Cambino, siciliano di nascita e veneziano di adozione, che alla nuova figuratività porta un suo singolare contributo, già abbastanza sottolineato da un’attenzione internazionale, con una serie di opere che traducono visivamente le azioni e le reazioni di uno spirito senza dubbio profondo, unendo alla fervida fantasia mediterranea la luminosità di un colore che, per lunga tradizione, ormai diciamo proprio dei veneti. Personaggi strani, santi e re bizantineggianti, facciate di chiese e di palazzi stranamente goticheggianti, ricordi spagnoli resi splendidi dalla personalissima cromia, accenti ironici e sentimentali originalmente amalgamati, apparente semplicità d’un figurare venato di nero, quasi a concludere lo scoppio solare dei gialli e dei bianchi: ecco gli elementi da cui Gambino fa sorgere, senza che un’espressa volontà intervenga per intellettualizzarne la crescita, le sue visioni che attingono spesso un clima di serena purezza, fra l’epico e il mitico, quasi con umore ariostesco.
L’appassionato dipingere di Gambino, che parte dalla realtà per giungere a composizioni fuori di ogni naturalismo, fa dell’epoca di questo artista un nuovo anello del variegato rosario dei secoli. A quanti ripetono, con balorda sufficienza, forme e formule ormai sclerotiche, preferiamo il coraggio di questo artista che, alle improvvise e transitorie fortune, ha preferito la lenta e difficile conquista di un suo stile, di un suo linguaggio, di una sua inconfondibile personalità.
La mostra odierna, a nostro parere, conferma e sviluppa le qualità di Gambino; ed è perciò, nell’attuale evolversi della situazione pittorica, un avvenimento di rilievo.”

Giuseppe Sciortino

1964

“…Nelle sue opere non mancano mai le figure, ed anche quando esse si riducono solo ad uno ‘spaventapasseri’, anche in quel caso vi è, in quel corpo pieno di paglia, quel senso di umana ricerca e di lotta disperata contro la inutilità. […]
Quella sua affannosa ricerca di una sintesi che non tradisca il fondamento rappresentativo, quella totale e pressante presenza della sua personalità, quel colore che accentua il rigore dello stile e che esclude ogni elemento estraneo, rendono possibile una varietà di interpretazioni in cui si evidenziano momenti e discorsi di un’arte veramente vissuta…”.

Da “La Vernice” n. 8, del 9 settembre, Enrico Buda


“Sono evidenti in Gambino l’intensità della terra di Sicilia e un qualche influsso spagnolo; l’una si manifesta nella forza coloristica, l’altro nei caratteri stilistici. Certo è che la sua opera, alla prima impressione, contraddice lo spirito della pittura veneziana moderna più di quella antica, per via di quella relazione che è tra le due civiltà pittoriche. Bisogna però rilevare che Venezia ha dato al pittore un tema particolare: […] gli edifici, i palazzi dai tanti occhi e dalle linee architettoniche in moto…”

Personale alla Galleria La Maggiolina – Alessandria, Virgilio Guidi


“…La pittura di Gambino presenta due aspetti ben distinti: uno accentrato nella figura umana, l’altro nel paesaggio. Non si tratta di due modi diversi di dipingere o di sentire; ma essenzialmente di due diverse reazioni di fronte a queste realtà. L’umanità di Gambino è povera e dimessa, sofferente; ma mai stracciona ed insulsa. […]
Essa possiede una carica umana eccezionale che le deriva da una forte vibrazione, di sentimenti appena mascherati da una apparente semplicità espressiva, da una contenuta sobrietà coloristica, da un segno grafico preciso ma essenziale.
Quasi si direbbe che il pittore ricerca continuamente negli altri il ricordo di se stesso. […]
I paesaggi rappresentano l’altro aspetto. […]
In queste visioni architettoniche Gambino ubbidisce ad una personale sollecitazione, propria della sua vena pittorica; per questo siamo propensi a pensare che questa sia […] la forma d’arte che maggiormente lo diversifica […] nel contesto dell’arte contemporanea.”

Da “Corriere Alessandrino” dell’8 dicembre, R. Cavanna

1965

“…Si sono citati, a proposito di Gambino, i remoti influssi dei mosaici di Monreale, si è parlato di Buffet per talune sue figure, si è accennato anche ai ‘pupi’ siciliani e alla loro essenza di personaggi che, senza vita, ne trovano di continuo una diversa. Citazioni non certo infondate. […]
Ma dove, a nostro avviso, s’è poco approfondita l’immagine è dentro la sostanza stessa della natura artistica di Gambino. O che non vi confluiscono due mondi, due – per certi versi – opposte tendenze che la sostanza pittorica della sua arte riunisce e armonizza? O che non sono espressionistiche quelle sue figure di spaventapasseri, quei suoi cacciatori, immagini formate di illuminazioni violente e di improvvisi arabeschi lineari? O che non sono invece veri e propri racconti quei suoi quadri frontali e rigidi eppur così mossi d’affetti ch’egli dedica alla gente senza classe sociale […], oppure quei suoi cassettoni fine Ottocento così grandi e torreggianti […]? Nei primi la materia (e la stessa linea) è rotta, spezzata, convulsa, macchia di una sostanza primigenia che forma il mondo e il pensiero; nei secondi la rappresentazione si svolge in teorie allineate frontalmente come le ‘vergini’ di Sant’Apollinare, come i sogni murali e infantili di Mirò o di Klee o come le allegre feste di una città di Franco Gentilini. Due mondi che […] trovano unità nella materia pittorica, sensuale e violenta, pura di campiture e decisa negli stacchi, guidata da un temperamento che tutta la pervade e la anima…”

Personale alla Galleria Girasole – Udine, Giorgio Mascherpa


“…A prima vista si fa avanti una grafia marcata che sviluppa un reticolo fitto, con decisa andatura verticale e le linee del quale si spezzano e si piegano ad angolo acuto, stretto, appuntito: c’è del segno da vetrata gotica che a qualche critico ha fatto pronunciare il nome di Bernard Buffet. L’accostamento tuttavia non regge perché non vi è alcun rap-porto interno tra l’artista siculo-veneziano e il celebre pittore francese, non vi è rapporto tra l’irrompere emotivo della pittura di Gambino e il ragionato, fabbricato stilismo di Buffet: dalla parte del primo sta lo sfogo poetico, sensuale e naturalmente icastico, dalla parte del secondo l’idealizzazione a freddo, calcolata e sofisticata. Non parliamone più…”

Da “Messaggero Veneto” del 23 maggio, Arturo Marnano

1967

“Caro Gambino, accetta questa mia lettera come testimonianza di un’amicizia e stima che datano ormai da quindici anni. Vedendo alcune delle tue ultime opere il mio pensiero è tornato alle tue prime prove, al sicuro temperamento di cui erano indizio.
Dopo un lungo periodo in cui non avevo più avuto notizie da te, né del tuo lavoro, è stato per me un piacere ritrovarti nel lavoro e scorgervi una continuità che annulla, di colpo, gli anni e costituisce prova della tua coerenza, della integrità e autenticità della tua ispirazione, oltre che della tua capacità (che è forza morale) di portare avanti, di approfondire, di accrescere i motivi più autentici della tua visione.
In questi tempi di salti della quaglia tu non sei arruolato tra i saltatori che si contraddicono e si autonegano cadendo sempre sulle quattro zampe e con l’aria di aver sempre avuto ragione.
Sei rimasto fedele al tuo nucleo curando di precisarlo in immagini più sicure, più nette. Ciò significa che per te dipingere non è operazione velleitaria, smania mondana o spettacolo ma ricerca e sforzo per trascrivere in immagini la tua esperienza.
Negli ultimi dipinti mi par di notare che mentre cerchi di solidificare le tue forme e di rinserrarle in una intelaiatura nera (specie nelle figure), nello stesso tempo lasci alle forme (soprattutto nei paesaggi) nuove possibilità di espansione.
Ed è interessante vedere come la stilizzazione delle figure, e delle forme in genere, non si propone come «maniera» siglata in modo definitivo, ma, al contrario, non esclude sviluppi, non si chiude alla ricerca, alla possibilità di nuove prospettive.
Questo vuol dire che il tuo lavoro è in movimento, in sviluppo.”

Personale alla Galleria Torbanena di Trieste, Renato Guttuso

1968

“Misura di un artista. L’unica vera misura di un artista è la sua evoluzione. Conobbi per la prima volta Gambino a Venezia, nel 1958, e fui immediatamente colpito dalla potenza ingenua della sua arte.
Sia che dipingesse gli edifici di età indefinibile della città che aveva adottato, sia che indugiasse ad osservare, isolandola, la figura di una ragazzina vestita di una gonna azzurra, sempre si scopriva nell’opera sua un occhio pieno di comprensione, una mano esperta, un’intelligenza penetrante una fresca immaginazione.
Mia moglie ed io, in quei brevi giorni, avemmo il privilegio di conoscere Gambino anche come uomo, e non fui sorpreso di scoprire nell’artista un essere umano, pieno di calore e di intensa vitalità, di interesse per ogni cosa o persona, inquieto, ansioso di lavorare e di svilupparsi.
Bene, si dice «Non dimentica», ci si imbarca sul motoscafo, un aeroplano ci riporta a New York, e Venezia è ormai infinitamente lontana.
E sebbene per un breve periodo si mantenga una certa corrispondenza, ci si rende conto che veramente il nostro italiano e l’inglese di Gambino non sono così buoni da permettere che le rispettive idee si concretino in un’espressione fluida, e così le lettere cessano. Il ricordo di Gambino si limita alle due tele appese alla parete del soggiorno.
Ed ecco che, nove anni dopo, mi ritrovo a Venezia, c’è un’esposizione di opere di Gambino. Entro nella galleria, chiedo alla bionda segretaria dove potrò trovare Pino, spiegandole che siamo vecchi amici. Prima che siano passati dieci minuti, eccolo arrivare alla galleria.
Esita un momento per richiamare alla memoria il mio viso, poi il tempo si ferma – siamo di nuovo nel 1958 – ma qualche differenza c’è. Le differenze sono nell’uomo e nella sua opera. Differenze che stupiscono.
Dove nel 1958 vi era una promessa, nel 1967 la sua realizzazione. In luogo del talento che si distingueva appena nel 1958, ora, nel 1967, vi è la piena consapevole padronanza di quel talento. La sua tavolozza, già forte in quel tempo, ora ha acquistato una potenza travolgente, le sue pitture risplendono con l’intensità di segreti rivelati.
C’è lo stesso senso della composizione, lo stesso infallibile occhio per ciò che è essenziale, lo stesso atteggiamento di fresca fantasia, ma a queste qualità si aggiunge ora un vigore nuovo che viene proprio dall’uomo. Dopo tutto, in arte non vi sono misteri: l’uomo è l’opera, l’opera è l’uomo. Gambino uomo col passare degli anni è enormemente cresciuto e possiamo davvero dirci fortunati che abbia potuto e saputo tradurre nelle sue tele questa sua evoluzione, in modo da farci partecipi della sua magnifica, unica visione della vita, una visione che si estende molto al di là del cerchio d’acqua che circonda Venezia.
Ora Gambino tocca la mente e il cuore, e mente e cuore sono vastità illimitate che solo il vero artista può raggiungere.”

Evan Hunter

1970

Così ricca e varia è oggi la fortuna dell’arte e dei pittori da non permettere al critico l’umile indulgenza con la quale, un tempo, egli cercava di dare al suo giudizio più apprensive e umane considerazioni, ancora nell’ambito della cronaca. Così, non si può dare a Gambino l’aiuto che la sua particolare biografia e il suo trepidante ardore gli concederebbero. Dobbiamo considerarli consumati nell’opera, e quest’opera, se lascia apparire dalle sue tracce il patire della materia e del segno, deve difendersene tanto da accusare il proprio manierismo, piuttosto che l’urgere e il prepotere dei suoi contenuti figurativi e umani. L’espressività, sferzata sino al limite di scucitura e di rattoppo della figurazione, ha da valere più dell’ansia espressiva che rattiene la sua pietà crepuscolare e se ne segna per incertezza. Il «più» ha da azzardare sul «meno» la violenza del dettato, e forse, proprio nel momento in cui la minore paziente poesia del racconto amava ritrovarsi fra le mura di casa.
Indubbia la natura interiore, e direi pallida, di Gambino, tutt’una con la sua voce trepidante e umile: indubbia, per contrasto, altresì la volontà esteriore dell’artista, che drammatizza colore e segno contro se stesso. La pausa, l’intermittenza del cuore, gli echi lunghi e musicali della memoria, si rifrangono allora sprezzantemente in un’allucinata emergenza di prospettive. Si annientano distanze, profondità, partiture e silenzi di spazi, per precipitare, per deflagrare nell’alchimia degli ori artificiosi che lumeggiano un sole ditirambico, da orgiastico cattolicesimo, da calcinato spagnolismo. Il giallo è il collante di questa precipite meteora figurativa che sta in piedi per azzardo di significazione e tuttavia infissa a un supporto di segnature nere, ove un particolare goticismo alla Buffet scontorna e commenta lo stesso grintoso squallore della povertà. Le architetture decadono con addosso ancora i segni del capriccio emotivo e le tubature, gli scarichi, gli scaracchi dell’unto plebeo, dei liquami araldici. Le Venezie di Gambino, pur nel loro vetroso poliedrismo da cantorìa infantile, sono sgranate e ricucite al filo di un’industria battente che ne esalta il mosaico, i rattoppi, gli sconci acconciati a figurarle, a tenerle nella concettosa allegoria di un paesaggio che, alla fine, è sempre lo stesso: il principio di tenere in pugno una violenza casuale e di dirigerla a fini di meraviglia, di saccheggio, di provocazione.
I risultati più belli, Gambino li ottiene dall’impulso della sua direzione, dalla impertinenza delle tracce operose che si decidono al segno, sbrogliato, sgarrato, su trame e su grane di tessiture, di fondi più cocenti: come se da un abbaglio totale egli passi via via a decifrare le offerte e gli appigli della sua visività, e se ne dia un senso, un carattere propizio da continuare, da svolgere, da elaborare per intendimenti mentali più sottili e poetici. Paesaggi e figure sembrano passare allora dall’esclamazione a domande più segrete, al colloquio prima interrotto: nei quadri più belli, oltre gli sfarzi caduchi, alita questo grigio vento poetico che sembrava perduto, lo squallore di una festa bruciata nei colori e ridotta al traliccio dei suoi fantasmi.
Tuttavia, è impossibile credere che l’intimità e l’esteriorità di Gambino, il suo ardore segreto e la sua infatuazione incendiaria, possano trovare un punto d’incontro oltre la zuffa flagrante nell’opera. In ogni opera si consuma il più e il meno dell’artista: il caso impugnato a valere lo dirigerà sempre al fine del suo trovarsi nell’azzardo giusto o nel gesto vano, l’uno e l’altro a nascergli dallo stesso impulso del fare per fare, del vivere indiscriminatamente la propria esistenza pittorica per “essere”, prima ancora che per ottenere un risultato, per contare un quadro. Gambino vuol passare per la porta larga. Lo sa, e del suo lavoro, che gli è tutto necessario per essere nel fare, egli suggerisce e propone tuttavia i quadri, le opere che è riuscito a avere dal suo mettersi alla prova con se stesso, dal suo giudicarsi, dal suo scegliere: sono i quadri di questa mostra.

Presentazione alla Personale al Traghetto 2 – Venezia, Alfonso Gatto

1972

“La tavolozza di Gambino è composta da rossi, da blu, da verdi, da gialli… basta un lieve spostamento del soggetto, un leggero mutamento delle percezioni e del sentimento e subito gli stessi colori si ricompongono in modo diverso, la tela si illumina di una luce particolare: ora ricca di fastosa bellezza; ora inquietamente equilibrata; ora sfumata verso toni più freddi, quasi lunari; ora splendida, di una luminosità solare. Ma questa luce non è riflessa da una realtà «esterna»; parte dall’interiorità, dalla memoria o da una partecipazione affettiva ad una natura che è diversa dalla nostra: da una natura meridionale (come Gambino) e «contadina», tipica cioè di un mondo che vive ai margini della civiltà industriale; ancora non offuscata dai miasmi di una esistenza disumana.
E’ soprattutto luce che ha valore metaforico. Ci suggerisce questa annotazione il fatto che di essa risplendono sia chiese moresche, sia palazzi rinascimentali, sia il gotico di case e chiese veneziane. Il luogo, il tempo, la latitudine o le circostanze pare contino poco per Gambino. La luce è dentro di lui; o meglio è lui che la compone mantenendone ferma la trasparente lucidità; variando soltanto, entro un certo spazio, il rapporto fra i colori, la intensità cromatica, o la fermezza dei grumi e degli impasti. E’ luce che rappresenta la fedeltà ad una singola idea del reale; rifiuto di una esistenza diversa da quella che Gambino sente come condizione unica di sopravvivenza.
Questa ci sembra sia la più rimarchevole impressione suggerita dal cromatismo luminoso di un artista che da tempo ha raggiunto una possibilità tecnica così raffinata da modulare in variazioni e sfumature continue sempre la medesima concezioni della «fisicità».
Per Gambino dunque l’arte è intesa come momento assolutamente predominante della soggettività; o tuttalpiù come ideale di bellezza di cui la realtà offre soltanto spunti occasionali. Pare confermare, del resto, questa possibilità interpretativa anche-la «stilizzazione delle figure umane che sono viste in una rigidità o con una «innaturalità» così evidentemente «voluta» da darci subito la certezza che l’artista stia cercando di realizzare non tanto la figura umana quanto la sua sublimazione, lo studio della sua «spiritualità», e, nello stesso tempo, il senso delle proporzioni entro la superficie del quadro.
Certo, qui, nelle figure-personaggi esiste una carica espressionistica che nei paesaggi è assente; tuttavia si può dire che anche questa ricerca dell’espressione tende ad uniformarsi: così come la stessa luce illumina paesaggi di latitudini diverse, anche la stessa espressione è data a personaggi diversi. Nei volti impenetrabili di Gambino, in quegli atteggiamenti ieratici, infatti, non si può leggere la sfumatura caratteriologica individuale; o qualsiasi connotazione tipica di classe. L’espressione è un valore livellato in un universo psicologico analogo (o addirittura identico) sia che si tratti di volti borghesi o contadini o di madonne: ovunque lo stesso pacato, sofferente stupore esistenziale indicato con pochi tratti essenziali e quanto mai funzionali.
E’ come se l’ineluttabile fosse ormai accaduto da tempi immemorabili; come se la spersonalizzazione esistesse da sempre, in quanto fenomeno sociale, collettivo.
Non vorrei azzardare ipotesi troppo forzate, ma in questa tendenza a non differenziare luoghi o classi o caratteri, che evidentemente Gambino sente come esigenza interiore e che rappresenta il rifiuto della storia (o di quanto riflette una condizione umana in cui la storia si è arrestata nell’alveo di civiltà ormai estinte) c’è una rassegnazione, un senso fatalistico della vita che appartiene alla sensibilità e alla cultura orientale, o qui da noi alle aree immiserite e depresse da millenaria povertà. Questo almeno sembrano indicarci in Gambino le figure umane il cui significato (come per la luce) è simbolico, metaforico, assai più che ideologico o di classe.
Segretamente forse Gambino desidera non vivere il presente; la sua solidarietà con l’umanità è vissuta come astrazione; pare che egli trasferisca ogni esperienza in un continuo ricordo e che, nello stesso tempo cerchi di adattarlo alle sue capacità di sopportazione accrescendo la ricchezza della fantasia. Nelle sue architetture, ad esempio, cui abbiamo già fatto cenno, ciò che lo attrae non è tanto il reale quanto ciò che il reale gli offre come pretesto per realizzare una struttura; è il senso delle proporzioni; l’equilibrio della struttura stessa; il fatto che una casa, una chiesa o un palazzo possano essere, a un tempo, movimento e stasi. E credo che particolarmente nella riproduzione di questa tensione egli raggiunga effetti di non comune bellezza. Lo aiuta in modo molto interessante la lezione dell’astrattismo: la scomposizione della struttura architettonica, il corromperne i rigori baricentrici, provoca un senso di statica dinamicità che è propria dell’architettura. Ma nelle sue tele accade molto di più: entro la sintesi fra staticità e movimento, i colori giocano la loro funzione di amalgama luminoso inventando la vita, il dinamismo, il momento ludico, il canto. Ciò che la realtà «esterna» gli aveva reso insopportabile, cioè l’esistenza, diventa gioia di vivere entro il valore metaforico della luce che egli realizza accumulando i colori strato su strato, con la spatola o il pennello, indifferentemente; con un gesto che pare affrettare il compimento dell’opera perché è da essa e in essa che la vera vita di Gambino incomincia.”

Guido Costantini

1973

“…I first met Gambino the painter in Venice in 1958 and was immediately struck by thè innocent power of his art. […] Nine years later, you fìnd yourself once again in Venice, and of course there is a showing of Gambino’s work […]. The differences are staggering. Where in 1958 there was emerging talent, in 1967 there is realization. The palette that was strong then has become overwhelmingly powerful, the paintings glow with the intensity of discovered secrets. There is the same sense of composition, the same infallible eye for what is pertinent, the same freshly imaginative attitude – but these are supplemented now by a personal vigour that comes from the man himself. […] Gambino the man has grown enormously over the years, and we are very fortunate indeed that he has been able to translate his growth onto canvas, and share with us his uniquely magnifìcent view of life, a view that extends far beyond the watery boundaries of Venice

Presentazione alla Personale alla Galleria d’arte Arno – Firenze, Evan Hunter


“A ognuno fu data la parola,
il gesto che la segue, l’atto
che la conclude perfetta in una sfera”

“Coro”, poesia scritta in occasione della Presentazione alla Personale alla Galleria d’arte Arno – Firenze dall’amico Mario Lucchesi

1974

“Perché un Gambino ‘spagnolo? […] In verità, Gambino è veneto soltanto d’elezione e non si può dire che il suo ‘venetismo’ sia evidente: tutt’altro. Ricordo però certe chiese barocche (di San Moisè, ad esempio, d’un effetto straordinario) che Gambino ritraeva una decina d’anni orsono. Ora, il momento barocco è forse il meno consentaneo all’architettura veneziana; ma che cosa potremmo immaginare al posto della Salute di Baldassarre Loghena? Diciamo quindi che Gambino è ‘veneto’ nei limiti in cui è ‘barocco’. Si ponga mente a certe sequenze di case veneziane, in cui Gambino è pittore felicissimo, e si vedrà forse spuntare, sotto il gotico, la categoria del barocco. Il segno uncinato, lo scatto a voluta, quella stessa enfasi cromatica (l’architettura barocca è tutta ‘pittoresca’, cioè illusionistica) dicono che Gambino ha interpretato più una Venezia barocca che una Venezia gotica. La sua terra naturale è infatti la Spagna. Lì egli si sente perfettamente a suo agio. […] Gambino vive respira e odora e s’inebria dell’atmosfera barocca spagnola. Le sue chiese sono quelle del più fantastico Churriguerismo; i suoi altari sono tutti usciti dal mirabolante ingegno di Narciso Tomé; le sue figure, gli uomini che reggono il baldacchino o le donne in estasi davanti alle Madonne del Pilàr, nascono dal cuore più profondo della Spagna…”

Presentazione delle gouaches “Viaggio in Spagna” alla Galleria Giraldo – Treviso, Paolo Rizzi


“…Nei volti impenetrabili di Gambino, in quegli atteggiamenti ieratici […] non si può leggere la sfumatura caratteriologica individuale; o qualsiasi connotazione di classe. L’espressione è un valore livellato in un universo psicologico analogo (o addirittura identico) sia che si tratti di volti borghesi o contadini o di madonne; ovunque lo stesso pacato, sofferto stupore esistenziale indicato con pochi tratti essenziali e quanto mai funzionali. E come se l’ineluttabile fosse ormai accaduto da tempi immemorabili; come se la spersonalizzazione esistesse da sempre, in quanto fenomeno sociale, collettivo”.

Personale alla Galleria SeleArte – Padova, Guido Costantini

1975

Il Viaje por Andalucìa, alla galleria Atrium di Cordova, dal 30 aprile al 31 maggio, è presentato da Francisco Zueras:
“…Un hombre tremendamente inquieto que pinta alternativamente en Italia y Espana. Un artista de larga y brillante carrera […] que ha preparado una fiesta de luz en està galena cordobesa, para demostración de que es un hombre que pinta con un dominio total del ofìcio, haciendo con los pincelos cuanto le viene en gana. […] Un artista que se caracteriza, ademàs, por su insòlito amor a Andalucia en generai y a Cordoba en particular, puesto que en està ciudad vive y pinta todos los anos de noviembre a marzo, en la plaza de San Andrés, estudio que, con el de Venecia, es el cuartel general donde proyecta sus ‘ofensivas’ en los frentes artisticos romanos, ingleses, norteamericanos y franceses. [… Gambino] ha recogido magnificamente de cada aspecto urbano lo que pudiera tener de exaltación o calma, y nos lo ha explicado asì, con la emoción defìnidora de su luminosa profundidad. […] Y sin embargo, todo parece también que flota, todo tiene algo de angelico y extrasutil. Si la pintura es ademàs fervor, y este fervor se defìne como extranamento en el paisaje, identidad piena del hombre con la naturaleza que lo forma y lo rodea, con lo que en ella tiembla corno voz inefable, la pintura paisajìstica de Gambino es, ademàs, todo eso…”.

Presentazione alla Personale “Il Viaje por Andalucìa” alla Galleria Atrium – Cordova, Francisco Zueras


“… ‘Prima di disegnare, devo bloccare la composizione del quadro, la sua architettura. E un bisogno fisico per me. Il fatto del colore viene dopo, non è affatto premeditato; nasce occasionalmente. Prima mi interessa la struttura: che deve essere precisa, rigida, ferma, assoluta […]’. Il processo di sintesi fenomenologica avviene in lui per istinto più che per ragionamento: tutto si riduce alla macchina che è poi l’ossatura del quadro […]: Gambino coglie nella retina, in modo non dissimile dal processo di riduzione cézanniano i vettori forza dell’oggetto, quasi scardinandoli dalla realtà…”.

Da “La Vernice” a. V, del 18 giugno, Giulio Gasparotti

1977

“La giornata è scorsa luminosa, da strano inverno, con temporali e schiarite. Pino compare nel portico.
Quando lo vidi l’ultima volta lo lasciai entusiasta per la fatica che stava intraprendendo: bozzetti di scena e figurini per I quattro rusteghi che concluderà, fra poco, la stagione lirica al nostro “Comunale». Doveva cimentarsi con l’opera di due grandi veneziani, lui, che a Venezia non è nato ma ha scelto queste «isole felici» per vivere, come tanto tempo fa il suo conterraneo Antonello.
Lo guardo scorgendo negli occhi scuri, di puntigliosa dolcezza, l’ansia di sempre. Conosco il suo impegno, quale misura ha usato per recuperare dalla goldoniana Venezia del 700 a quella di Wolf-Ferrari una Venezia sua. Quella che andiamo a verificare, insieme, nel gruppo di dipinti preparati per questa mostra che affianca nella nostra città, dopo la grande esposizione di Casa da Noal, la sua esperienza di scenografo. Da due anni non dipingeva Venezia. Forse perché da tempo ai soggiorni nella nostra campagna alterna quelli madrileni?
Apparentemente i suoi paesaggi veneziani raccontano lo stesso volto, con tagli, impaginazioni, impeti e cedimenti cromatici e un ritmare di segni sul piano. Permane il fare narrativo ma il rapporto con la realità, attraverso il segno, assume valore allusivo e magico di riferimenti segreti, preludio e oltre l’immagine. È il segno-simbolo di un infinito al di là dell’esperienza umana, allusivo, ambiguo, orizzontale, verticale, obliquo, struttura e contorno; le facciate come apparizioni. Ad abbandonarsi lievitano struggenti percorsi (o il da percorrere?) ma l’immagine è altro, sopraffatta, rivista, rivissuta, inafferrabile. Stende velature e gratta una materia che si fa identica a splendori e rifiuti, irraggiungibile e già consumata.
Continua l’incantamento nei paesaggi di Spagna, seducenti, con la regale tristezza dei gitani, le pertiche lancinanti delle aceituneras, il basso cantare dell’aceito nero, l’impietosa astratta malinconia dei giocatori di domino, un «siglo de oro»’ per un’età che ha solo un tempo da vivere. Forse proprio questo, la bellezza della vita, è la storia di Cambino.
Andandomene dalla casa, oltre il portico di bianca ombra di luna, penso all’ambiguità in cui mi induce Cambino, creatore di irrealtà con segni di una dimensione tutta interiore.”

Presentazione alla Personale alla Galleria Borgo – Treviso, Luigina Rossi Bortolatto

1984

“-…Quand’è che ha scoperto la sua vocazione artistica?
-Da bambino, quando disegnavo le cose che avevo attorno […]. -Nessuno le aveva insegnato. Era una manifestazione naturale, come il parlare. […] Con la stessa facilità e lo stesso piacere?
-No, ecco: da bambino ero un po’ isolato e preferivo mettermi a disegnare piuttosto che uscire a giocare. Eravamo a Monza, allora, e io andavo al giardino zoologico, e non lo dicevo a nessuno dei disegni […]. Poi, la guerra […]. Sono arrivato a Bologna e lì ho lavorato nella pubblicità. Così un dono naturale mi è diventato necessario per vivere. -Ma la pittura come canto, come poesia, quando è nata?
-Alla fine della guerra. Ho cominciato da solo. […]
-Allora c’è il vuoto dietro a lei?
-Sì, diciamo meglio, che sono cresciuto in piena autonomia. […]
-E questo le ha creato problemi? Il non appartenere a una scuola o gruppo costituisce a volte un ostacolo.
-Forse è stato un benefìcio. Quando sono arrivato a Venezia è stato Pietro Zampetti a farmi uscire dall’isolamento […].
-Nella sua pittura ci sono segni e figure ‘gotici’, aguzzi. Da dove vengono. ..?
-C’è in quelle forme un riscontro con la mia vita. Una certa amarezza di fondo che ho sempre portato con me. E la mia forma prediletta per esprimere le cose…”.

Da “Il Gazzettino” dell’l 1 ottobre, un’intervista di Ivo Prandin

1989

…Più di trent’anni sono passati, eppure è sempre lui, Gambino: si difende, direi con onore contro rincalzare delle mode. Con aggiornamenti sottili sottili difende un linguaggio che sarebbe triste abbandonare a favore di nuove esperienze. Niente giochi d’azzardo o tuffi nel vuoto, nessuna fuga in avanti azzardata e perigliosa. […] Ecco il Gambino più recente: più solare, più aperto alle seduzioni del paesaggio con quel richiamo folclorico non sempre gradito, anche se nobilitato da frasi eleganti, da scansioni musicali…”.

Da “La Tribuna” dell’8 novembre, Giulio Ghirardi

1997

“Nel 1954 arrivare in una città, a Venezia in particolare, era o un ritorno, o un desiderio curioso, un caso forse, un misterioso destino certamente; tutti questi oscuri sentimenti erano dentro il vortice tetro della guerra che aveva massacrato e liberato l’umanità dai mostri e che sembrava allontanarsi trascinato dalla sua stessa necessità.
Lungo le spiagge che raccoglievano dal naufragio il silenzio del buio, prendevano fiato, per allontanarsi dal mare ostile e ingovernabile chi aveva fatto i conti con il più prossimo passato.
Gambino, come un piccolo acrobata percorse i fili delle calli veneziane con equilibrio come da sonnambulo e mai si perse e quando disegnava con uno stecco intinto nell’inchiostro di china tracciava le figure della memoria, delle cose che aveva non dimenticate, ma aveva stese su di loro il leggero velo della pietà.
Il segno tracciato sulla carta era come un sismografo interno che contrastava con il suo stare in compagnia, vivace, ironico, piacevolmente attratto dalle chiacchiere, aveva cura del suo aspetto fisico, per la capigliatura nera, aveva gli occhi nerissimi sotto le lunghe ciglia.
Ma acrobata, sempre appena squilibrato ed in pericolo, trovò la sicurezza di tutti i passi quando scoprì, da pittore, piazza S. Marco.
Bisogna dire che nei disegni il foglio serviva solo da supporto dell’immagine, pochissime ed elementari le relazioni compositive governavano il racconto. Compose la Piazza non più in verticale, come per gli altri disegni e quadri, ma in orizzontale riducendola alla sola prospettiva della Procuratie Vecchie. Le simmetrie che diventano ritmo e a seconda della inclinazione prospettica, frontale o laterale, continuità di pieni o di vuoti gli fanno scoprire un piano, uno spazio compositivo che da quel momento in poi sarà la base per poter raccontare come per un teatro scene e personaggi appena allontanati dalle ragioni drammatiche del loro esistere.
La semplicità e la ricchezza bizantina lo acquietano e lo ripagano dei drammi e paure così da vicino vissuti. Durante la Sua vita ha avuto tanti amici e tanti oggi gliene sono rimasti anche se quasi mezzo secolo è passato da quando il piccolo acrobata siciliano arrivò a Venezia e divenne Veneziano e Pittore.”

Alberto Gianquinto

1998

“Ricordo di Giuseppe Gambino.
Col suo andare diseguale e frettoloso, […] me lo rivedo, accanto a Borsato, come un tempo: alto, quest’ultimo, con quel suo passo sicuro, lo sguardo d’aquila, e il cravattino a farfalla; e vi era subito spazio attorno a lui, Presidente della Bevilacqua La Masa, un compito che era stato di Diego Valeri, affettuoso ed intelligente mentore dei pittori veneziani. Gambino, piccolo e discreto, con quegli occhi vellutati e ridenti, era proprio l’opposto di Borsato. L’uno e l’altro facevano parte del gruppo dei giovani, ormai non più tali, inseriti in un certo ambiente artistico, fra il ’50 e il ’60: un gruppo estraneo ai grandi cenacoli pittorici che vedevano in Vedova e Santomaso due prestigiosi leaders, attentamente seguiti e legati alla critica internazionale. Quei giovani sentivano, invece, il fascino dei ‘Maestri’, quelli cui vivevano cordialmente accanto, intendo Guidi e Saetti; ma anche a quanto facevano ancora i vecchi e cari pittori, da Pio Semeghini (che s’affacciava anche lui spesso alla porta della Bevilacqua, proveniente col suo bastoncino da Verona) all’emaciato e severo Carena, nella sua tarda età ancora pieno di una creatività davvero ‘felice’…”.
Seguono memorie di quegli anni e dei precedenti, della guerra, di ‘Pino’ che a Guiglia (piccolo centro dell’Appennino, dove il castello – che era stato dei Montecuccoli – ospitava sia la famiglia Gambino, in quanto il padre lavorava in qualità di funzionario alla Soprintendenza di Modena, sia gli Zampetti: professore, responsabile, tra l’altro, delle opere d’arte lì ‘sfollate’, con moglie e figlia piccola) tra bombardamenti, rapine e continui stati angosciosi, “si chiudeva nel suo mondo affidato al disegno e al colore, unica possibilità […] d’essere se stesso. Il padre, a sua insaputa, mi mostrava di tanto in tanto quei fogli: creati senza compiacimenti, essi apparvero messaggio diretto d’una coscienza che scopriva il mondo e lo sentiva vero, ben oltre quell’inferno in cui si era venuto a trovare”.
Altro salto di anni; poi uno sguardo sulla pittura: “A guardare certe sue prime esperienze, […] egli sembra suggestionato da Cézanne. Il suo ‘espressionismo’ non è violento, non è ‘gridato’: esso, mi si scusi il bisticcio, è contemplativo. […] Venne poi la scoperta di Venezia, della ‘sua’ Venezia, le Procuratie, le facciate delle chiese barocche, i palazzi lungo il Canal Grande. Guidi ha scoperto il valore della luce lagunare nella pienezza del meriggio estivo, col ‘caligo’ che svapora ed allontana la visione; Saetti ha avvertito la sostanza calda e succosa dei tramonti alle ‘Zattere’, con quella rossa sfera che scende tra le acque. Gambino ha intuito il senso storico, l’umanità dei monumenti, l’uno accanto all’altro, sui canali, quasi un messaggio di eventi vissuti, interpretandone il sentimento del tempo. […] Ho sempre pensato che la sua pittura, il suo modo di stendere il colore, così nuovo, così attuale, abbia un sottofondo remoto nel ricordo dei mosaici di Monreale, riscoperti quindi in quelli di San Marco […]. E l’amore per la Spagna e quell’arricchimento cromatico che ne deriva […] alimentano la sua poetica, legata alla meditazione sui problemi delle sofferenze umane.
Così come non venne affascinato dalla sirena dell’Astrattismo (che travolse negli anni cinquanta critici e artisti), allo stesso modo Gambino non se inchinato mai ai potenti, e tanto meno ai prepotenti.
Ha voluto essere se stesso coerente fino alla fine, sul filo di una speranza che addirittura risale alle sue origini: a quel giovinetto di Guiglia che si chiedeva – costretto a chiudersi in se stesso – perché mai tanta crudeltà tra gli uomini”.

Dal volume “Giuseppe Gambino – Catalogo Generale dell’Opera”, Castaldi Editore, Pietro Zampetti

 


“Giuseppe Gambino.
C’è un metro per misurare la grandezza di un artista: è l’aderenza della sua produzione (nel caso, pittorica) alla sua struttura organica. In altre parole: occorre identificare nell’opera quella ‘verità biologica’ che la depura dalle scorie dell’adattamento all’ambiente. Questa operazione mi è sempre stata agevole per Gambino. […] Come dire? Gambino […] era l’identikit dei suoi quadri, o viceversa […]: ‘La mia pittura mi assomiglia [diceva] perché è uscita dal mio sangue: anzi, è il mio stesso sangue’…
Anche qui, come nel testo precedente, una toccante digressione sugli anni duri, la guerra, il sanatorio, la strada di Venezia, gli inizi faticosissimi… “Finché arrivò una ricca signora americana, moglie separata dell’attore Edward Robinson, che gli aprì le porte del mercato internazionale. La stessa Biennale, già nel 1956, anche per l’appoggio di Pietro Zampetti, lo consacrò pittore di vaglia. [Ma in definitiva…] era allora e fu sempre un artista controcorrente, autonomo nella cifra stilistica quanto indi- pendente come uomo [essendo però sempre] un osservatore attento: ad esempio alla Biennale del 1954 egli guardò più a Ben Shan, allora esposto nel padiglione americano, che alla corte degli astratto-informali tra i quali venne premiato proprio il veneziano Santomaso. Eppure non è che la pittura di Gambino fosse fuori dal suo tempo. Essa, semmai, ‘adoperava’ le risultanze delle avanguardie informali, cioè il gusto brutalistico e insieme raffinato del colore, ma le inseriva in tutto un contesto (ad esempio i muri umidi e corrosi delle case veneziane) in cui quelle qualità tattili-cromatiche venivano più direttamente distillate. […] A distanza di tempo questa forza esistenziale di Gambino si confronta sempre più con la storia. La coerenza si fa stile. […] Egli è diverso dagli altri e, nel contempo, entra in una dimensione che è quella che – ben lo sentiamo – abbiamo tutti vissuto. Storie collettive e storie personali: un modo di esprimere una vitalità che era fisica ma anche morale.
La forza sorgiva, che si distingue così nettamente in Gambino, nasce sempre -come in tutti i grandi pittori – da un programma che è di vita e di pittura. Ho annotato, tanti anni fa, le frasi che lui mi scandiva, con la sua voce dissonante e sincopata, appollaiato sullo sgabello girevole dello studio di Preganziol. ‘Prima di disegnare devo bloccare la composizione del quadro, la sua architettura. E un bisogno fisico, per me. Il fatto del colore viene dopo, non è premeditato: nasce occasionalmente’! …].
L’altro elemento-base per capire Gambino è l’istintività del gesto. ‘Dipingere per me – ripeteva – è un fatto primitivo, o almeno primario […]. Non ho mai avuto grossi scossoni culturali. Nei musei mi commuovo di fronte ai capolavori, ma poi ho l’impressione che, al momento del dipingere, tutto resti fuori. Non c’è, credo, traccia di influenza esterna’. Verissimo. Ma occorre anche spiegare che la molla scatta soltanto quando c’è l’emozione: il cosiddetto ‘stato di grazia’. C’erano delle pause, che duravano anche alcuni mesi, in cui Gambino rimaneva in condizione di inerzia. ‘Lo sento che non c’è più colloquio tra me e la pittura: non mi resta che attendere…’. Poi, d’un colpo, subentrava il bisogno di sfogo; e il dipingere diventava appunto ‘scarica’ ormonale. L’atto si faceva dionisiaco, frenetico, come un rito alla divinità, all’Eros, a Pan […].
Così si spiega la limpidezza del discorso di Gambino, durante quaranta e più anni. Non vi è cesura tra le opere degli anni Cinquanta e le ultime. Semmai si nota una sorta di frantumazione progressiva del ductus pittorico. Una materia che col tempo obbedisce più al fermentare del colore che alla perentorietà del segno. Gambino scioglie la pittura, la rende più rorida, più sfatta, più ‘atmosferica’, attenta ai riflessi di una luce che esce dagli anfratti, dalle crepe, dalle screziature del colore. […] La conclusione è netta, senza veli. Una pittura come questa di Gambino è e resta insofferente al tempo, alla contingenza, alla moda, al gusto effimero. Proprio perché essa nasce e si nutre nei gangli di un organismo psico-fisico tutto particolare, sempre teso a tradurre disperatamente l’emozione, non è destinata a farsi scavalcare…”.

Ibidem, Paolo Rizzi

2000

“La Venezia di Giuseppe Gambino.
A pochi anni dall’avvio del suo itinerario artistico, i commenti di Guidi e di Umbro Apollonio attiravano l’attenzione sul ruolo che la ‘serie delle Venezie’ aveva già assunto nella produzione pittorica di Giuseppe Gambino: edifici veduti ‘sotto un aspetto così speciale da render [li] difficilmente individuabili […]’ ebbe a scrivere il secondo; immagini lette con spirito ‘in un certo senso primitivo’, intento a circoscrivere e impreziosire spazi di pietra che avrebbero potuto destare l’attenzione ammirata di Ruskin, immagina il primo.
In effetti, lungo il percorso intrapreso allora Gambino ha proseguito per gran parte della sua attività. […] Venezie o Venezia, e quale Venezia? A rivederne le tele, soprattutto quelle tra cui Gambino si aggira per farne immagine, sono costruzioni (appare limitato, infatti, l’interesse al paesaggio urbano) di una certa Venezia, appartenenti a momenti precisi della sua cultura architettonica. In sostanza brani di medioevo, per lo più gotico e tardogotico, evocazioni del primo Rinascimento attraverso Ca’ Dario – in più versioni – o Palazzo Contarini delle Figure, attraverso i prospetti di San Zaccaria, della Scuola Grande di San Marco, delle Procuratie Vecchie; e ancora attraverso elementi rinascimentali della palazzina sul Canal Grande che, pur conchiusi, alludono alla persistenza del continuum visivo che la configura; e infine mediante taluni luoghi appartati dei ‘margini’ della città ed edifici ‘minori’, e poche suggestioni barocche. I grandi spazi urbani – fatta eccezione per un accostamento tra Scuola Grande di San Marco e monumento al Colleoni – in realtà sono assenti dalle rielaborazioni pittoriche di Gambino. Ma soprattutto, va sottolineata l’esclusione dalle sue tematiche delle architetture della renovatio del pieno Rinascimento. In questa certa Venezia letta in pittura un paio di casi ci sembrano particolarmente significativi: quello di un dipinto del 1956, dove è la Chiesa di San Francesco della Vigna a fare da oggetto: vista tuttavia non appunto verso il prospetto all’antica del Palladio, ma ripresa guardando verso il fianco meridionale della fabbrica, scandito e ritmato da lesene e da finestre; e quello di San Giorgio, pure veduta di fianco evitando accuratamente la facciata palladiana in un olio del 1978 e più tardi ripresa frontalmente, ma in un’accezione di elemento di paesaggio lagunare, uno dei pochissimi ad essere accolti in quanto tali nella Venezia di Gambino.
[…] Nel rigore strutturale delle sue tele (della ‘architettura’ dei suoi quadri, per fare ricorso alle sue stesse espressioni) gli edifici si risolvono in facciate, in prospetti, le cui geometrie essenziali, man mano che la ricerca pittorica procede, hanno sempre più la funzione di cloisons per campi di colore; mentre si rende evidente il sostanziale disinteresse a plastica, volume, massa (e in fondo allo spazio in quanto tale). E se di facciate si tratta, non sono queste intese come superfici parietali, ma come telai di sequenze seriali, di finestrate. Bidimensionalità dei prospetti, policromie luminose: ‘mirabilis claritas, varietas marmorum’ sono appunto i codici estetici della cultura architettonica veneziana prima del rinnovamento cinquecentesco. La frequenza e la sequenza di aperture – il prevalere dei vuoti sui pieni delle facciate – già secondo Sebastiano Serbo è quanto caratterizza il ‘costume’ edificatorio di Venezia, dove si fabbrica, egli annota, in modo assai diverso che altrove: e il tratto specifico è appunto la non-classica ‘gran copia de i lumi’ che egli stesso studia nei suoi progetti di palazzi per il gentiluomo veneziano accordandosi alla tradizione: impaginati di facciate che saranno modello ben presto diffuso. L’architettura al ‘costume di Venetia’, i cui ‘vizi’ e le cui ‘licenze’ Serlio si sforza di razionalizzare (si tratta insomma di ‘fare simili cose con qualche ragione’), è anche lo “Stil veneziano” che Antonio Visentini riproverà e giungerà ad emendare nei suoi disegni; ed è la stessa appunto cui John Ruskin dedicherà la sua lettura appassionata, presa dal fascino di ‘incrostazioni di marmi colorati, serpentino e porfido […]’; presi dalla varietas di paramenti lapidei che vestono fino a quello che egli vede come un ‘autunno’ primo rinascimentale, stagione di colori cui seguirà un ‘inverno… freddo di facciate innalzate con pietre nude’. Inverno al quale i pittori, egli dice, avrebbero tentato di opporsi.
L’affermazione di Guidi da cui abbiamo preso avvio, appare dunque tutt’altro che priva di fondamento. Gambino pittore autodidatta: l’autodidatta, peraltro, guarda, legge, ascolta. Ricerca, accoglie, elabora: è da pensare, insomma, ad alcune pagine delle Pietre di Venezia […], alle immagini pittoriche dei teleri di Gentile Bellini e di Carpaccio… Ma è da pensare anche alle riletture di Venezia che, aggiornando e reinterpretando le più antiche, tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso stavano riformulando Giuseppe Mazzariol – su Venezia urbs picta – e Sergio Bettini – sulla continuità tardoantica e anticlassica della cultura artistica di Venezia – ; e a quella di Egle Trincanato rivolta alla Venezia minore degli anni in cui con Giuseppe Samonà progettava per la città in termini di ‘vibrazione continua di icone’. Riletture nei confronti delle quali l’intuizione di Gambino procede in parallelo visivo, appartato ma verosimilmente non senza incontri.

Presentazione della mostra di Casa dei Carraresi – Treviso (testo riportato in “Giuseppe Gambino – disegni 1944-1989”, Marsilio Editori, 2001) Ennio Concina

2001

“In Pittura Disegno.
[…] Come hortus conclusus, il catalogo è il luogo privilegiato della lettura ‘verticale’, che, sulla base di un confronto continuo (rinvii interni, accostamenti, discrepanze, scatti, passi indietro) stabilisca senso e scopo di un’esperienza estetica. A sua volta, in quanto storicizzazione codificata, la schedatura catalogica diventa in una seconda fase strumento privilegiato per l’attività storiografica. L’utopia dello storico d’arte (poter operare sulla base dei cataloghi generali di tutti gli artisti!) proprio quando s’imbatte in ulteriore filo da torcere, allora si nutre di nuovo alimento. In questo senso i cataloghi possono essere intesi come le tessere di un mosaico per la lettura sincronica di un’epoca; e chi vi lavora, anche se si limita a svolgere una analisi interna alla personalità dell’autore, indirettamente contribuisce ad arricchire l’intero sistema delle arti. Perciò la comparsa di un catalogo, anche se nel nostro caso non comprende tutta intera l’opera grafica, va sempre salutata positivamente, a prescindere dall’apporto del singolo artista, e del singolo studioso. […]
Nel caso dei disegni di Gambino, siamo addirittura a un passaggio ulteriore, dal momento che mi risulta siano ben pochi gli artisti del Novecento di cui sia disponibile il catalogo dell’opera grafica […]. Gambino ha condiviso con molti artisti italiani, e non solo, della sua generazione la convinzione di poter attualizzare – ‘modernizzare’ – rimpianto figurativo della tradizione aggirando il dilemma che spaccava in due, in quegli anni, la scena artistica postbellica: misurarsi con gli estremi decompositivi del picassismo (allora tanto diffuso) da un lato, approdare alla non fìguratività, dall’altro. Essendo nato nel 1928, il giovane siciliano ha incrociato, certo, questi nodi, ma non in termini così frontali come è stato per altri artisti nati qualche anno prima, per i quali fu inevitabile misurarsi con il grande trapasso segnato dalla fine della dittatura fascista e dalla straordinaria apertura vissuta nella Biennale di Venezia del 1948. In gran parte autodidatta, Gambino si è confrontato a fondo con la contemporaneità soltanto una volta arrivato a Venezia, nel 1954. Ma non mancano spunti interessanti per comprendere anche gran parte della sua attività grafica successiva, se si pensa alla permanenza bolognese nel 1953, quando l’artista era entrato in contatto con Nino Caffè in un ambiente dove entrambi hanno lavo-rato alla grafica pubblicitaria. L’esperienza mi sembra decisiva, sia per la conoscenza di Caffè, orientato chiaramente a una sintesi grafica anche nella sua pittura, sia per la spinta alla stilizzazione che Gambino farà propria desumendone alcune caratteristiche dalla sintesi bidimensionale tipica del linguaggio pubblicitario […]. E sufficiente sfogliare i cataloghi della ‘Bevilacqua’ per rendersi conto del fatto che Gambino, approdato a Venezia, rispetto ai giovani veneziani è un po’ un caso a sé.
Nel 1954 il pittore esordisce con un dipinto […] situabile in un ambito proprio del realismo cinematografico, in cui colpisce rimpaginazione grafica, con lo sfondo ‘astratto’ a campitura piana, su cui risaltano le oblunghe silhouettes delle figure. Contemporaneamente egli disegna molto e si spinge fino a Burano dove esegue i primi dipinti di argomento lagunare, sospinto in questa direzione dal richiamo che indubbiamente esercitava allora il Premio Burano. Ma si noterà come Gambino si discosti nettamente dal tardivo postimpressionismo dei 233 pittori ‘lagunari’ e senta piuttosto l’urgenza della sintesi […].
Il processo di stilizzazione, che maturerà tra il 1956 e il 1957, ha piuttosto altri riscontri, che mostrano come il pittore siciliano arrivi alla cifra sua personale attingendo a suggerimenti in parte esterni all’ambiente veneziano in senso stretto. E il caso abbastanza dibattuto dell’influenza dell’opera di Bernard Buffet, conosciuto alla Biennale di Venezia nel 1956, cui aggiungerei un altro tassello, forse ancora più pertinente. Penso cioè a un pittore appartenente alla generazione precedente a quella del nostro, a Franco Gentilini, che è molto presente a Venezia nel corso degli anni cinquanta e che elabora tra il 1953 e il 1956 il nucleo più tipico delle sue ‘vedute’
[…] evitando accortamente il limite illustrativo mediante un ricorso alla deformazione e all’invenzione, accostando e sovrapponendo spesso architettura e figura in un senso che ha il sapore di un sogno a occhi aperti […].
Altri spunti vengono indubbiamente dal ricco serbatoio della Bevilacqua La Masa in quegli anni, dove si muovono poetiche opposte […]. Gambino innova attraverso una serie di semplificazioni (eliminazione della figura umana dal dipinto di ‘paesaggio’) e tramite approssimazioni fortemente metonimiche: il palazzo al posto della veduta, la facciata al posto del palazzo, portando la facies a riempire ossessivamente la superficie della tela, alla ricerca di un ritmo tra segno e colore che sia del tutto coincidente con la forma- quadro […] dentro una struttura verticale-orizzontale, come se la frontalità ravennate (o marciana) venisse inquadrata in una intelaiatura alla Mondrian […].

Dal volume “Giuseppe Gambino – disegni 1944-1989”, Marsilio Editori, 2001, Nico Stringa

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